Ci è stato chiesto, a più riprese, di affrontare il tema della “Diaspora ebraica”, nonché la vicenda complessiva degli ebrei italiani e della loro storia. Si tratta di domande che ricorrono frequentemente anche nelle conversazioni sull’antisemitismo, che Renzo Fracalossi tiene nelle scuole o davanti a platee interessate e che disvelano il desiderio di conoscere e di capire. Solo la conoscenza e la reciproca comprensione possono dissolvere il cancro del pregiudizio. Più che mai necessarie nel tempo in cui il preconcetto antisemita riaffiora con tutto il suo portato di ignoranza, di rancore e di odio.
L’esilio e la dispersione – Il termine “diaspora”, di origine greca, significa “dispersione” ed identifica appunto la dispersione del popolo ebraico, avvenuta soprattutto dopo la distruzione del Tempio di Gerusalemme nell’anno 70 d.C. e che segna quindi la fine del regno di Giuda. Nella lingua ebraica invece si usa il termine “galut” che possiamo tradurre con il più pesante concetto di “esilio”. In realtà, gli ebrei, come molti altri popoli dell’epoca, si diffondono, per una molteplicità di ragioni, nel bacino mediterraneo fin dal III secolo a.C. ed a Roma si hanno notizie dell’insediamento di una stabile comunità ebraica già nel II secolo a.C.; comunità che diventa fiorente e numerosa a partire dall’età imperiale, integrandosi agevolmente nella struttura sociale della città e dell’impero romano. Dopo le guerre giudaiche del I secolo d.C., si assiste appunto alla “dispersione forzata”, ovvero la diaspora, degli ebrei lungo le coste del Mediterraneo e nell’Europa conosciuta, senza peraltro che ciò pregiudichi la possibilità per gli ebrei di diventare “cives romani” (212 d.C. sotto il regno di Caracalla), al pari di altri popoli soggetti al dominio di Roma. Fin qui si tratta insomma di una diaspora di natura politica ed economica, volta anche a frenare spinte nazionalistiche delle tribù di Israele rispetto alla terra che li ospita da secoli e che oggi, in senso lato, definiamo come Palestina.
Nel primo millennio d.C., gli ebrei si stanziano soprattutto nelle zone costiere: dalla Spagna alla Provenza; dalla Puglia alla Sicilia; dalla Grecia alle grandi isole e solo con il VI secolo iniziano a risalire le grandi vie fluviali italiane prima e continentali poi, spingendosi nell’entroterra e dando vita a piccole comunità dedite ai commerci, al prestito di denaro ed alle arti della medicina, apprese nelle proficue frequentazioni con la cultura araba. Questa ondata migratoria, verso il IX secolo, giunge anche nella zona renana, dove incontra altre migrazioni ebraiche provenienti da occidente e precisamente dalla Francia, per dar vita infine alle grandi comunità ashkenazite (dal termine ebraico Ashkenaz che indica la geografia centro europea e soprattutto tedesca). Ad essa fa da alternativa l’altra grande componente delle migrazioni ebraiche, quella cioè che approda nella penisola iberica soggetta, fin dagli avvii dell’VIII secolo, alla dominazione arabo-berbera. Le terre iberiche vengono indicate, in ebraico, con il toponimo “Sefarad”, dal quale discende poi il nome delle comunità che lo popolano e che sono definite come sefardite.
L’ebreo errante – È però con l’avvento e la diffusione del cristianesimo, a partire dal IV secolo d.C., che la diaspora assume un carattere diverso, rispetto a quello eminentemente politico fin qui adottato. Il cristianesimo diventa religione delle masse da un lato e dei regni europei dall’altro, come già lo è stato nell’ultima fase dell’impero romano d’occidente e d’oriente. Il cristianesimo afferma la sua preponderanza sull’ebraismo, minoritario anzitutto sotto il profilo numerico, costruendo una narrazione tutta teologica, che vede nella diaspora la punizione dell’esilio per il popolo deicida e per le sue discendenze. Da quel momento in poi, prende sostanza quello stereotipo dell’ebreo errante, cioè relegato in una condizione miserevole e priva di radici proprie, che ne segna la presenza e la storia nei secoli a venire.
Ma se ashkenazitismo e sefardismo sono le grandi direttrici della diaspora, spesso ci si dimentica che essa si diffonde anche per altri flussi che, seppur numericamente inferiori, non lo sono dal punto di vista culturale ed identitario, come nel caso degli ebrei romanioti greco-balcanici, dei falashà etiopi, dei mizrahim iraniani, yemeniti e georgiani e degli ebrei siciliani, categoria quest’ultima a sé stante nel panorama mediterraneo ed infine degli italkim – ebrei italiani – che costituiscono un elemento autonomo ed originale e raccolto inizialmente ed in via quasi esclusiva, nella citata comunità ebraica di Roma.
Non solo Askenaziti e Sefarditi – Chi sono questi ebrei, non iscrivibili nelle grandi vicende dell’askkenazitismo e del sefardismo? Cominciamo dai romanioti. Si tratta di una delle più antiche realtà della diaspora nel vecchio continente, prevalentemente stanziata nei territori dell’attuale Grecia ed il suo nome deriva da uno dei tanti appellativi dell’impero romano-bizantino d’oriente e cioè “Rhomània” e di cui abitanti si dividono fra cristiani, chiamati “rhomaiòi” ed ebrei appunto “romaniòti”. Quest’ultimi seguono un rito molto affine a quello tradizionale oggi praticato dagli ebrei italiani e che si richiama alle più antiche radici delle comunità ebraiche pugliesi, calabresi e siciliane. Oggi, i “romaniòti” rappresentano una esigua realtà sociale, fatta da circa 4.000/6.000 individui, rintracciabile soprattutto in Grecia e sull’isola di Corfù, dove sopravvive forse l’ultima comunità di “romaniòti pugliesi” nella diaspora mondiale.
I falashà invece sono gli ebrei dell’Etiopia, ovvero di coloro che nella dispersione si sono appunto sistemati nelle terre etiopi. Inizialmente protetti dalle autorità italiane occupanti contro le violenze perpetrate dalle popolazioni mussulmane, impregnate da uno storico antisemitismo di origine religiosa e teologica, gli ebrei falashà migrano, subito dopo il secondo conflitto mondiale, verso il neonato Stato di Israele, gradualmente inserendosi, pur fra molte difficoltà non ancora del tutto risolte, nel tessuto sociale del giovane Stato.
Oggi sono circa 135.000 i falashà che vivono in Israele. Praticano una ritualità diversa da quella ashkenazita, sefardita e romaniòta e spesso sono considerati “ebrei di serie B”, diventando vittime di casi di razzismo ed avendo scarsa rappresentanza politica. Gli ebrei siciliani hanno avuto un ruolo centrale nello sviluppo e nella crescita dell’isola e della sua funzione dentro l’universo mediterraneo. Dapprima con la dominazione romana e poi interagendo con quella normanna e araba, gli ebrei siciliani sono portatori ed elaboratori di una grande cultura, che darà particolarmente frutto con il regno di Federico II di Svevia. I re di Sicilia li proteggono, anche perché durante la dominazione normanna gli ebrei costituiscono una sorta di patrimonio personale del monarca, ma al contempo li utilizzano, o meglio usano i proventi delle corpose tassazioni imposte alle attività ebraiche soprattutto nel settore tessile, per finanziare la Chiesa cattolica. In cambio offrono appunto protezione, libertà di culto e di esercizio dei riti della loro tradizione religiosa e possibilità di sviluppo culturale. Fra tutte queste diversità dell’ebraismo mediterraneo ed europeo, spiccano gli italkim – cioè gli ebrei italiani, come già ricordato – che hanno una loro storia del tutto originale ed unica nel contesto diasporico.
Le persecuzioni romane – Gli ebrei si installano a Roma ancora in epoca precristiana, trovando un’accoglienza tollerante da parte dell’impero, almeno fino all’avvento al potere di Nerone che, nel 67 d.C., innesca un processo di persecuzione antiebraica, proseguito poi durante il regno di Vespasiano prima e di Tito poi. Nel luglio dell’anno 70 d.C. e nell’ambito della prima guerra giudaica, i romani assediano Gerusalemme, nel frattempo ribellatasi e distruggono il Tempio, dov’è contenuta l’Arca dell’Alleanza, che suggella il patto degli ebrei con il loro Dio. Il rapporto con il potere romano subisce alternanze di varia natura e così, ad esempio, nel 313 d.C. Costantino concede a tutti la libertà di culto nell’impero, imponendo però agli ebrei – e solo a loro – la proibizione all’esercizio degli uffici pubblici, della professione legale e dell’arte militare, rendendoli, di fatto, cittadini di seconda serie. I secoli successivi sono un’alternanza continua di persecuzioni e concessioni, che peggiorano con la caduta dell’impero e l’arrivo dei barbari.
Convertiti al cristianesimo, ostrogoti, visigoti e longobardi, pur lasciando agli ebrei l’esercizio delle loro attività commerciali, comprimono le libertà individuali e collettive e tendono ad isolare le comunità ebraiche al fine di controllarne azioni e movimenti.
Nel frattempo la cultura ebraica della diaspora fiorisce, con pari vigore, anche al di là delle Alpi, dove una religiosità nuova ed assai rigorista, come quella professata dagli “hasidei ashkenaziti”, determina la nascita in Germania di importanti scuole talmudiche e di studi approfonditi e variegati sulla Torah, la Bibbia ebraica costituita dai cinque Libri del Pentateuco, che comprendono l’insieme di precetti ed insegnamenti che Dio ha rivelato al popolo ebraico attraverso Mosè.
L’avvio del nuovo millennio, porta con sé paure e profezie che ipotizzano l’imminente fine del mondo e della storia e ciò spaventa i cristiani immersi in un crescente senso di disagio e di terrore, che impone una difesa necessaria, anzitutto nei riguardi delle molte diversità che si affacciano sul palcoscenico della vicenda occidentale. In questo clima, le società nate dalla fusione fra i cosiddetti barbari ed i latini vivono una pesante fase di crisi, che si riverbera anche nei rapporti con gli ebrei.
Considerati “dèicidi” – È la loro diversità che suscita sospetto e l’accusa d’essere gli assassini del Figlio di Dio e di complottare per dominare il mondo anche in un supposto antagonismo con la Chiesa di Roma, rende la realtà ebraica dell’Europa centrale prima vittima di nuove persecuzioni che prendono forma soprattutto con l’avvio della prima Crociata nel 1096. Va liberata la terra dagli infedeli: “Deus lo vult” ed i primi nemici della fede che il cavaliere crociato e le turbe popolari, in marcia verso il Santo Sepolcro, incontrano sul loro cammino, sono appunto gli ebrei che abitano ai margini delle città e dei borghi alto-medioevali. Il sangue dei figli di Israele scorre, nelle terre di Ashkenaz ed in un’orgia di violenze improvvise e terribili.
Anche in Italia la situazione degli ebrei peggiora gradualmente nell’epoca delle Crociate. I giudèi vivono ai margini della società medioevale, nella quale praticano attività minori come il commercio degli stracci ed il prestito ad interesse, peraltro interdetto ai cristiani, mentre quest’ultimi avvertono l’urgente bisogno di identificare l’ebreo, per distinguerne la diversità che non appare evidente. Solo individuando il giudèo, questi può essere cacciato e perseguitato per le sue infinite colpe, che tanto offendono il Dio dei cristiani. E così, nel 1215 durante il papato di Innocenzo III, viene imposto il “pileus cornutus”, che nel mondo tedesco diventa subito lo “Judenhut” (il cappello ebreo). Si tratta di un copricapo di forma conica che gli ebrei maschi devono indossare, appunto per essere riconoscibili.
Comincia così una lunga teoria di prescrizioni, editti, ordini ed imposizioni papali, reali e nobiliari culminati nel IV Concilio lateranense, che decreta l’obbligo, per tutti gli ebrei della cristianità, di indossare sugli abiti una rotella gialla per gli uomini e azzurra per le donne, quale segno identificativo della loro appartenenza al popolo di Israele e quindi ad una realtà aliena e della quale diffidare comunque. Poi, non paghi di tali discriminazioni, cominciano le espulsioni.
Alla metà del Trecento circa gli ebrei vengono scacciati dalle due grandi monarchie europee, ovvero Francia e Inghilterra. Sembra infatti che questi sistemi statali, ancora in fase di perfezionamento unitario e di costruzione giuridico-politica, non riescano a conciliare la presenza di qualsiasi minoranza nel proprio contesto. Le diversità paiono infatti minare i principi di legittimazione e di unità che stanno alla base del processo di edificazione del potere monarchico e pertanto, vanno tolte dal quadro sociale nazionale che va componendosi, attraverso un processo per gradi successivi, ma non per questo meno feroci ed ottusi. Invece, in Germania e soprattutto in Italia, cioè dove manca un qualsiasi progetto unitario monarchico, il bisogno di salvaguardare un’unità sottoposta al potere regio non è avvertito affatto dalle culture dei Comuni italiani e dei piccoli principati tedeschi e, di conseguenza, le diversità minime che popolano le realtà sociali di queste due geografie possono sopravvivere e convivere.
Superstizione manichea – È un’epoca confusa e complessa, fatta di chiaro-scuri, di luci e controluci; un’epoca dominata dalla superstizione e dal manicheismo che stanno alla base della persecuzione antisemita che, carsicamente, attraversa tutta la vicenda medioevale.
Gli ebrei romani, in questa enorme e tragica confusione continentale, vivono sotto l’ala del Papa, nel bene come nel male. Una sorta di “protezione” papale consente a questa comunità di mantenere tradizioni, linguaggi e culti specifici, arrivando perfino alla possibilità di aprire, durante il papato di Leone agli inizi del Cinquecento, una scuola e dar vita ad attività tipografiche, mentre Papa Clemente VII, nel 1524, emana la “Costituzione della Comunità ebraica romana”, con la quale si impongono regole e comportamenti, sostanzialmente tutelando la sopravvivenza ebraica nell’Urbe. Ma si tratta di una fiamma destinata a spegnersi rapidamente. Poco dopo, infatti, il Tribunale dell’Inquisizione romana, istituito nel 1542 dal Sant’Uffizio, da corso a nuove forme di accanimento antigiudaico, con la confisca ed il rogo dei beni della comunità e di tutte le copie del Talmud fin qui pubblicate nella città papale, per il loro supposto contenuto anticristiano. La presenza della Chiesa cattolica romana, oltre alla particolare condizione giuridica degli ebrei nei territori italiani a forte influenza giuridica e culturale del diritto romano che definisce gli ebrei stessi come cittadini, sia pure di seconda categoria, incide molto sulla vicenda del mondo ebraico nella penisola e ne accompagna le sorti, nel bene come nel male.
La cacciata degli ebrei – Mentre tutto ciò avviene a Roma, nel resto d’Europa la persecuzione contro gli ebrei assume le forme più crudeli con la “cacciata” degli ebrei dalla Spagna (31 marzo1492 – Decreto dell’Alhambra) e poi dal Portogallo (Editto di Espulsione del re Manuel, 1496), precedute dal rinnovarsi delle accuse di omicidio rituale, che colpiscono, non solo la comunità ebraica di Trento a seguito della ben nota vicenda del Simonino, ma anche altre realtà come quella di Innsbruck o quella di Porto Buffolè, riportando in attualità l’antica accusa di omicidio rituale che gli ebrei compirebbero, nell’approssimarsi della loro festa di Pesach cioè la Pasqua ebraica, al fine di impastare le azzime con il sangue innocente e puro di un bambino cristiano. Accusa risibile, se solo si pensa alla distanza che da sempre l’ebraismo – e con esso anche l’islam – coltiva con il sangue, ma alle credenze popolari ciò non interessa affatto e il pregiudizio costruisce il mito assassino che grava sull’ebraismo per secoli.
Perseguitare gli ebrei, che hanno assunto, nel tempo e nella narrazione cristiana, anche molti connotati propri del demonio, diventa una caratteristica europea del Rinascimento e del XVI secolo.
Costretti a fuggire dalla penisola iberica oppure a convertirsi forzatamente, pena la morte, gli ebrei riprendono la via della diaspora e tornano a percorrere le rotte del “mare nostrum”, approdando a Salonicco, a Creta, a Livorno e a Venezia ed in altri grandi porti mediterranei, dove la tolleranza, legata anche ad aspetti meramente economici, consente un minimo di serenità collettiva e la possibilità di riannodare i fili di vite che sembrano altrimenti spezzate dalle persecuzioni.
Il “ghèto” di Venezia – A Venezia gli ebrei ci sono da molto tempo e vivono periodi alterni di accoglienza e di ripudio, con la conseguente cacciata verso la Terraferma. Hanno però contatti con le loro famiglie, con parenti, amici e corrispondenti commerciali che li rendono utili alla Serenissima la quale, sembra addirittura per proteggerli da possibili pericoli, li colloca su un’isoletta dove un tempo stavano le fonderie che in dialetto si chiamano “getto”. Da “getto” a “ghetto” il passo è breve, ma apre la porta ad una storia che accompagnerà l’ebraismo europeo fino al dramma della Shoah. Il ghetto sostituisce le “giudecche”, cioè quei rioni cittadini che, fino ad allora e un po’ ovunque, hanno ospitato gli ebrei e le loro attività. Ma non solo Venezia.
Napoli, Palermo, Genova e Rodi; Marsiglia, Ancona e Lecce, ma anche Amsterdam, Anversa, Berlino, Londra e Varsavia, sono le destinazioni di coloro che fuggono dall’Inquisizione spagnola, provando, con grande fatica, a ricostruirsi una vita senza dover temere per la propria incolumità. Nascono così i quartieri ebraici, dove si parlano le lingue d’Europa, dove si incrociano conoscenze ed esperienze, dove crescono e si dilapidano fortune notevoli. E mentre tutto ciò avviene sulle rive del mare, nel centro del continente un monaco agostiniano – Martin Luther – si ribella all’immoralità della Chiesa di Roma, che tutto riduce a commercio ed interesse terreno e si pone l’obiettivo di riformare il cristianesimo, riportandolo alle origini della Parola. In tale contesto, Lutero prova dapprima a convertire gli ebrei al protestantesimo, ma non sortendo alcun effetto, volge la sua predicazione in senso violentemente antisemita. Nel 1543 pubblica “Von dem Juden und ihren Lügen” (Degli ebrei e delle loro menzogne), un libello di natura teologica dove incita alla distruzione delle comunità ebraiche, dei loro beni e della loro cultura. Nessuna tolleranza quindi verso coloro che vengono additati dal luteranesimo come veicoli del potere demoniaco e come tali ricercati, emarginati ed uccisi.
La Riforma porta alla reazione cattolica e controriformista che si realizza in scontri armati intestini alla cristianità e in quel Concilio di Trento che, pur durando diciotto anni, non porta ad alcuna significativa riappacificazione fra i cristiani d’Europa. I quali, anzi, subiscono l’ulteriore scisma della Chiesa anglicana, dimensionata sul potere regio.
La conversione coatta – È in questo clima che, nel 1577, agli ebrei romani viene imposto il culto cattolico attraverso una conversione coatta. Nel quartiere di Sant’Angelo viene collocato il ghetto – “il serraglio delli hebrei” – mentre a coloro che non si convertono viene imposto lo “sciamanno”, un distintivo da portare sui vestiti – dal quale il vocabolo “sciamannato” – e viene proibita la proprietà di beni immobili; l’assunzione di personale domestico cristiano; la possibilità di lavorare durante le feste cristiane e, infine, l’obbligo di svolgere solo attività commerciali di “robivecchi”. Ogni sabato, gli ebrei romani sono costretti poi a seguire le “prediche coatte”, imposte da Papa Gregorio XIII (1502-1585), nella convinzione che ciò possa servire ad una matura conversione. Ovviamente gli esiti, come sempre, sono proporzionalmente inversi all’obbligo ed in questo clima si consuma il secolo XVII e si apre la “stagione dei Lumi” che però illumina ben poco la vita degli ebrei romani, italiani e, più in generale europei. Dopo qualche decennio di relativa tranquillità, Papa Pio VI (1717-1799), nella seconda metà del Settecento, impone un clima poliziesco di ferrei controlli sul ghetto di Roma, la proibizione di qualsiasi attività commerciale e della lettura, pubblica e privata, del Talmud. Sono gli ultimi singulti di un potere cupo e dogmatico, espressione di una Chiesa incapace di cogliere la domanda di modernità che sta salendo dalle società europee e che porta, dapprima al fiorire dell’Illuminismo e all’affermazione della “dea Ragione” contro ogni forma di superstizione e di oscurantismo. Infine, all’avvento della rivoluzione.
La “tolleranza” nel secolo dei Lumi – Da Parigi inizia a soffiare un’aria di libertà e di diritti, figlia dell’Illuminismo, che dà i primi segni di sé anche nella penisola italiana della seconda metà del Settecento. A Genova (1752) gli ebrei non sono più costretti a portare segni distintivi e possono rientrare in città; a Livorno la grande comunità ebraica locale diventa il perno dello sviluppo urbano; in Piemonte agli ebrei viene concesso l’avvio di attività tessili con l’apertura di stabilimenti fuori dai ghetti; a Parma gli ebrei possono acquistare fondi e beni immobili ed a Reggio Emilia prosperano le attività di stampa e di editoria ebraica. A Vienna l’imperatore Giuseppe II, figlio di Maria Teresa, emana il celebre “Editto di Tolleranza” (1781) che esonera gli ebrei dal portare segni distintivi e ciò vale anche per coloro che vivono nelle città italiane dell’impero. Perfino nel Granducato di Toscana, dove regna un Asburgo e dove, già dal 1768, gli ebrei possono partecipare alla vita pubblica. Ovunque insomma nella penisola italiana, tranne che nello Stato pontificio, dove gli ebrei sono anzi soggetti ad ulteriori restrizioni della libertà singola e collettiva.
Nell’estate del 1789, dopo aver covato a lungo sotto la cenere, in Francia divampa la rivoluzione. Supportati dalle idee nuove di libertà ed uguaglianza prodotte dall’illuminismo, i cittadini francesi, rappresentati dall’Assemblea Nazionale, rovesciano il potere reale, nobiliare ed ecclesiastico; aboliscono il feudalesimo e la monarchia; proclamano la repubblica; vivono la stagione del “Terrore” giacobino; si riconoscono nella “Dichiarazione dei diritti dell’Uomo e del Cittadino”. Infine, difendono la Francia attaccata dalla reazione legittimista dei Paesi confinanti. Una guerra sanguinosa afferma però in Europa l’espansione delle idee, ancor prima che delle armate francesi. E così, il 10 febbraio 1798, il generale francese Louis Berthier entra a Roma. Quella stessa sera, gli ebrei romani gettano via, finalmente, il cappello giallo che li distingue da secoli. Il 20 febbraio il Papa Pio VI, prigioniero dei francesi, abbandona la città e il giorno seguente gli ebrei, con grandi coccarde tricolori, ascoltano il proclama francese che li rende liberi cittadini della Repubblica Romana, con pari diritti e doveri di tutti. Quello stato di grazia però dura poco.
Nella primavera seguente, Napoleone Bonaparte abbandona l’Italia e va in Egitto. La restaurazione italiana rialza la testa ed i primi a farne le spese sono per l’appunto gli ebrei romani. La città è occupata dalle truppe napoletane che impongono subito fortissime tasse ai giudèi e li costringono a rimanere chiusi nel ghetto per parecchi giorni. Altri disordini contro di loro scoppiano in varie città pontificie, con morti, feriti e saccheggi. Bisogna attendere il ritorno di Napoleone, nel maggio del 1800, per recuperare i diritti persi, poter partecipare alla vita pubblica e ritornare ad un clima di tolleranza e di integrazione. Nel 1809 Napoleone annette lo Stato pontificio all’impero francese e gli ebrei romani, che all’epoca sono circa tremila, tornano ad essere cittadini con pieni diritti.
Il “Grande Còrso” cade una prima volta e così il Papa Pio VII (1742-1823) rientra a Roma dall’esilio di Fontainebleau e quasi contemporaneamente ricompaiono le vessazioni e le imposizioni agli ebrei: ritornano lo sciamanno, le vecchie leggi, il ghetto, anche se le condizioni di vita qualche miglioramento riescono a mantenerlo. Si tratta di un copione che si ripete pochi decenni dopo. L’elezione di Pio IX (Giovanni Mastai-Ferretti, 1792, 1846-1878) accende qualche iniziale barlume di speranza nuova per gli israeliti di Roma. Infatti il nuovo Papa nomina una Commissione addetta ad esaminare i reclami degli ebrei e fa abbattere le mura e le porte del ghetto. La nuova ventata rivoluzionaria che porta alla seconda Repubblica romana (1849) apre orizzonti di innovazione anche per gli ebrei che possono gestire esercizi commerciali fuori dal ghetto e circolare nelle ore notturne. Ma è un fuoco di breve durata.
Il “caso Mortara” – La restaurazione, che subentra al crollo della Repubblica, impone ancora una volta nuovi divieti, nuovi obblighi, nuove tasse e nuove sofferenze a una popolazione ridotta a circa cinquemila individui. Sono gli anni del celebre “caso Mortara”. Il 23 giugno 1851, i gendarmi pontifici a Bologna portano via dalla sua famiglia il piccolo ebreo Edgardo Mortara che, si afferma, è stato battezzato in punto di morte e all’insaputa dei suoi genitori. Sarà un caso che scuoterà l’Occidente, anche per la cocciutaggine del Papa che si ostina ad allevare il piccolo nella fede cristiana, fino a farne un sacerdote, dilaniando però l’anima del bambino e della sua famiglia. Un dramma umano e un emblematico esempio del potere papale e dell’arroganza del pregiudizio cattolico.
Con l’annessione di Roma al regno sabaudo (1870), gli ebrei ottengono finalmente l’equiparazione dei loro diritti e nei periodi a cavallo fra i secoli XIX e XX aumenta quindi considerevolmente l’integrazione nella vita civile e politica italiana. Al punto che un ebreo – Ernesto Nathan (1845-1921) – viene eletto sindaco di Roma, nonostante si tratti di un massone, laico, anticlericale e mazziniano. Sarà lui l’artefice della modernizzazione urbana, soprattutto attraverso l’adozione del primo piano regolatore dell’Urbe. Nel 1904 viene eretta la grande Sinagoga, che sostituisce le “cinque Scòle” precedenti, cioè le Sinagoghe dell’epoca del ghetto. Diventa il punto di riferimento per l’intero ebraismo italiano, avviando anche un processo di centralizzazione delle istituzioni della Comunità ebraica. Scompaiono così le confraternite che si sono sempre occupate dei poveri e vengono sostituite da una “Deputazione di Assistenza” che assorbe tutte le attività solidaristiche e caritatevoli. Nello scorrere degli anni giunge fino a noi come centro di ascolto, di supporto materiale e di aiuto psicologico per le più diverse forme di disagio. Gli ebrei italiani partecipano attivamente ed in gran numero sia ai moti risorgimentali e quindi al processo unitario nazionale, poi al primo conflitto mondiale. Chiamati dalla loro Patria, gli ebrei accorrono e rispondono con entusiasmo, ottenendo un numero elevato di riconoscimenti al valore. Uomini politici come Sidney Sonnino, intellettuali come Dante Lattes, ufficiali superiori del regio esercito, nonché moltissimi volontari, offrono un contributo prezioso e che indica l’alto livello di integrazione dell’ebraismo italiano nel contesto della società post-unitaria.
La crisi economica che fa seguito alla Grande Guerra si riversa anche sul mondo ebraico e, specialmente, su quello romano, riducendolo in difficilissime condizioni di sopravvivenza, superate grazie allo sforzo di solidarietà che tutte le Comunità mettono in campo in tale frangente.
Nel 1923, Mussolini, ormai primo ministro e capo del governo, incontra il Rabbino capo di Roma in un clima di estrema cordialità. Il fascismo, per il momento, non è antisemita. Anzi. Molti ebrei sono fra i fascisti della prima ora – i “sansepolcristi” – e sostengono il regime e le sue politiche, al punto che l’economista ebreo siciliano Guido Jung diventa, nel triennio 1932/35, ministro delle finanze nel governo fascista e fra i fondatori dell’I.R.I. (Istituto Ricostruzione Industriale). Pochi anni prima, il regio decreto 30 ottobre 1930 aveva imposto una sommaria regolamentazione alle Comunità ebraiche italiane, raccolte dentro l’Unione delle Comunità israelitiche italiane, consentendo al fascismo un importante grado di controllo sull’ebraismo italiano.
Il “Manifesto della razza” – Nel 1937 prende avvio la campagna di intolleranza e di antisemitismo che porta, in breve, al “Manifesto della razza”. Vi si afferma che “gli ebrei non appartengono alla razza italiana”. Si arriva alle cosiddette “leggi razziali” (1938) che spezzano la vita delle Comunità ed estromettono gli ebrei italiani da ogni partecipazione, anche minima, alla vita nazionale. È il preludio di tempi ben peggiori, le cui premesse già si vedono nella Germania hitleriana. Espulsioni dalle professioni e dalla vita civile, pongono gli ebrei al margine della società e li fanno ripiombare in epoche buie, che culminano, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 e l’occupazione nazista del Paese, nelle retate organizzate dalle SS e dai fascisti della R.S.I.: rastrellamenti nei ghetti, deportazioni, delazioni, arresti, torture e persecuzioni ritmano la vita degli ebrei italiani e di quelli stranieri che qui si sono rifugiati negli anni precedenti e nella convinzione di poter quindi sfuggire alla piovra nazista.
La Comunità di Roma paga forse il prezzo più oneroso, con la retata del 16 ottobre 1943, nella quale vengono deportati 1.022 ebrei. Faranno ritorno quindici uomini e una donna. Su oltre 40.000 ebrei italiani, più di 7.000, ovvero quasi il 20%, finiscono nei Lager nazisti e solo 800 di loro, in totale, faranno ritorno alla fine della guerra.
Con la pace e la proclamazione della Repubblica, inizia anche un processo di normalizzazione e riconfigurazione della vita delle Comunità ebraiche italiane che trovano un posto e nuovi percorsi di integrazione nella vita democratica e nel suo sviluppo. Nel 1982, la Comunità romana, la più antica della Diaspora, è scossa da un attentato del terrorismo palestinese che uccide un bambino nei pressi del Tempio maggiore. Si tratta di Stefano Gaj Tachè, dilaniato dall’esplosivo. Il 27 febbraio 1987 viene infine stipulata l’intesa fra lo Stato italiano e l’Unione delle Comunità israelitiche italiane che, per l’occasione, cambia denominazione, adottando l’attuale nome di: “Unione delle Comunità ebraiche italiane” (U.C.E.I.). L’anno precedente, Papa Giovanni Paolo II (1920, 1978-2005) visita la Sinagoga di Roma: è la prima volta di un Papa e l’evento si ripete poi con i suoi successori, a suggello di un dialogo ritrovato e di una fratellanza che, nell’anno 2000, viene sottolineata anche da una invocazione di Papa Wojtyla, deposta nelle fessure del Muro del Pianto a Gerusalemme durante una storica visita. Scrive il pontefice: “…profondamente addolorati per il comportamento di quanti, nel corso della storia, hanno fatto soffrire questi tuoi figli, chiedendoti perdono, vogliamo impegnarci per un’autentica fraternità con il popolo dell’Alleanza.”
Sperabilmente, si conclude così anche la lunga peregrinazione della Diaspora nelle terre dell’Occidente, che riassume in sé la vicenda dell’ebraismo, le sue sofferenze indicibili e il suo intatto sogno di speranza. Ma su questa prospettiva, si abbatte la ripresa di un antisemitismo vecchio e nuovo, a livello mondiale, che trova alimento nella crisi morale, sociale ed economica caratterizzante l’avvio del terzo millennio e che si esalta nel massacro spaventoso del 7 ottobre 2023, forse la più massiccia strage di ebrei dopo la Shoah. Quell’antisemitismo sta seminando nuove paure nel mondo ebraico europeo.
Molti pensano di fare “alyah”, cioè andare in Israele abbandonando le terre d’Europa – e quindi impoverendole di cultura e di intelligenze – avvertendo un clima ostile e pericoloso, reso vieppiù tale dalla crescita costante di un antisemitismo islamico sterminatore ed incontrollabile.
Come sempre, il destino sta nel grembo (o sulle ginocchia) degli dèi.