A Trento il 23 marzo 1475, giovedì santo, mentre giocava nei pressi di casa, scomparve un bambino di nome Simone, figlio di Andrea Unverdorben e di Maria. La famiglia, probabilmente germanofona, abitava nella contrada del Fossato, dove il padre esercitava il mestiere di conciapelli. Il suo corpo senza vita e straziato da numerose ferite fu ritrovato la domenica di Pasqua in una roggia che scorreva presso la casa di una famiglia ebrea. Quella morte fu ritenuta un omicidio rituale perpetrato dalla locale comunità ebraica allo scopo di utilizzarne il sangue nei riti pasquali, secondo la diffusa “accusa del sangue” rivolta in Europa ai figli di Israele.
Nonostante alcune iniziali riserve, l’intera comunità ebraica venne processata e sottoposta a tortura fino alla confessione, subendo poi l’ovvia condanna. Sin da subito attorno alla figura dell’innocente fanciullo, ritenuto martire e beato, si sviluppò nel Trentino e nelle zone limitrofe un culto che sopravvisse sino al 1965, quando fu soppresso dopo la revisione critica degli atti processuali.
Le righe che seguono raccolgono i pensieri di Maria, ormai anziana e vedova, sull’evento che segnò tragicamente l’esistenza sua e di molte, troppe persone nella Trento del tardo XV secolo.
Indifferente alle narrazioni agiografiche e alle ricostruzioni giuridiche, come pure alla nuda cronaca, Maria rivendica, ostinata ma pacata nel tono, il suo essenziale e spietato dolore di madre.
Sette ne ho avuti. Sette come Felicita, diceva il curato. Sette come le volte in cui Caino fu vendicato, dico io. Del primo non seppi altro che una fitta al ventre, uno stillare vischioso lungo le cosce, pudore, paura, le braccia lucide della mammana e infine un grumo di sangue non mio sul copriletto buono.
Due, nati con un solo grido, morirono prima che iniziassimo a sorriderci. Fu meglio così: non una lacrima mi venne giù quel mercoledì mattina di fine novembre, tutto freddo e promesse, quando li accompagnai dietro la chiesa di San Pietro in una fossa da cui saliva un fumo più denso della nebbia che c‘era attorno, una fossa scavata con taglio della vanga, piccola piccola e calda calda come il mio ventre. Mi venne da pensare che stavano tornando a casa loro e me ne vergognai. Le vicine mi consolavano e io consolavo loro per quello che non trovavano sul mio viso asciutto. Li pianse il padre anche per me, incolpandomi muto di avergli ucciso in fasce due maschi primogeniti.
Altri due – a suo tempo lui, dormendomi a fianco non mi girò più la schiena – nacquero, ci sorridemmo, crebbero forti e belli; io insegnai loro a essere uomini e loro rassicurarono me di essere utile. Ora vagano per il modo.
Uno ha portato le sue scapole alte e i suoi capelli di stoppa a Venezia, dove le strade sono fiumi, le piazze laghi, i passanti zanzare, i carri zattere. Si vede che gli si erano conficcati nel cuore e nel naso l’acqua del fossato che ci bagnava l’uscio e il puzzo delle pelli ammollo nella bottega del padre.
L’altro, invece, ha preso la via del nord ed è voluto andare a star con zii che non conosceva, lì dove riposano le ossa dei nostri avi, la foresta scura che la fame di casa trasfigurava in un giardino di delizie.
So che sono nonna e non voglio sapere quante volte: solo so che un Andrea rivive nel nome laggiù in laguna, e una Maria qualche anno addietro ha stretto il collo con bende di candido lino e al mattino, rovesciato il capo all’indietro, s’acceca e rinasce, ferita dal primo raggio di sole che da oriente trapassa le vetrate, mentre mangia il suo Signore senza sapore. Non voglio sapere altro, mi basta non dover sapere che sono morti anche loro prima di me.
Sesta arrivò una femmina. Provai senza riuscirci a non affezionarmici troppo, perché sapevo che una morte precoce o un uomo rapace me l’avrebbero rubata. Ero nel giusto: se la contesero l’una e l’altra sul letto del suo primo parto. L’uomo vinse su di me, la morte su di lui. Con tutti perse quella povera figlia mia, sfiorita prima che suoi anni fossero due volte dieci.
Un formicaio a cui l’oste ha dato fuoco è l’animo mio, sono scappati tutti, chi per morire, chi per non morire.
L’ultimo, il più bello di tutti, anche lui venuto al mondo a novembre, ma protetto dal mantello di San Martino, lo tenni alla poppa fin quando era ormai capace di chiedermela a voce e sulle ginocchia più spesso di quanto prudenza consigli una madre.
Era bello davvero mio figlio, me lo dicevano le amiche. Brunetta, poi, se lo mangiava con gli occhi. Il padre lo mostrava agli uomini orgoglioso come se l’avesse fatto lui e non io. Ecco il mio stendardo di crociato, diceva!
Era bello, sì, ma non so più dire se io ricordi le sue fattezze nella purità di com’erano o se, piuttosto, non le abbia mescolate alle faccine ispirate che a mio figlio, poi, hanno dato cento frescanti di strada.
Il suo musetto imbronciato ai nostri rari “no” ci metteva in ambasce quasi quanto la paura della febbre. Una volta, a San Sebastiano, stette male davvero, per giorni e giorni la sua fronte cotta stillò sudore mentre fuori la neve seccava le ortiche. Poi finalmente il decotto del medico Tobia, ah quanto tememmo le chiacchiere del vicinato chiamandolo, dal petto aspirò il male e il piccolo tornò a sorridere.
Non volle essere pagato Tobia il giudeo per l’arte sua. “Questa moneta vale meno delle gote di vostro figlio. Sono contento così. Datela a lui, serbatela per lui, un giorno me la renderà”, disse.
Era il mese in cui i porcari fanno tornare il bestiame entro le mura, animando di schiamazzi sguaiati Porta Santa Margherita. Le bestie si illudono di trovar ricetto e docili si avviano invece al macello. Non sapevo allora che il perfido esattore sarebbe venuto tanto presto a chiedere indietro capitale e interessi. In quel momento mi bastava la vita che rivedevo fiorire negli occhi del mio puttino.
Poi, erano i giorni della Passione, vennero tumultuosi lo sgomento dell’assenza, la frenesia della ricerca, la peste del sospetto, i fendenti della verità, il trambusto delle inquisizioni.
I ferri del Tiberino cercavano la verità affondando nella carne della mia carne e io ne sentivo i fendenti uno a uno, uno a uno: la sua carne morta li riceveva, la mia carne viva li sentiva e ne pativa.
A giugno – come passarono lenti quell’anno i mesi! – mentre lungo le roste dell’Adige le lepri facevano mattanza di rose e giovani gigli, ci furono i colpi di tamburo alla Malvasia e il fumo di carne bruciata che nell’aria danzava con quello dell’incenso di un’inattesa santità.
I colpi del mazzolo rimbombavano sordi e cupi sulla membrana del mio cuore, ma quelle morti acri non affogarono il mio dolore di madre.
Della nostra povera casa fecero un sacello, del mio dolore un raccolto di offerte.
Fino a Gandino mi portarono, a dorso di mula, perché narrassi perfidia e miracoli.
A nessuno interessava il mio cuore straziato, però, né il fanciullo ch’era stato mio figlio o l’uomo che non sarebbe diventato. Tutti volevano solo un nome da odiare e un altro a cui chiedere ristoro alle loro miserie.
Un dottor di legge raccolse, mi hanno detto, in un librone la notizia delle centinaia di miracoli ottenuti per le lacrime di mio figlio versate in grembo all’Altissimo.
Le mie lacrime, invece, non bastarono a ottenere la sola grazia che al germoglio del mio grembo chiedevo ogni notte: tendermi la manina paffuta e attirarmi a sé.
I giorni divennero settimane, le settimane mesi, i mesi anni, gli anni lustri e io sono ancora qui, addolorata come allora, ma per grazia di Dio senza voci attorno. Ora come allora, il mio ventre geme e bestemmia la santità che me l’ha portato via.
1 commento
Complimenti. Un racconto intenso, denso e soprattutto umano, che restituisce così alla vicenda del Simonino quell’aurea appunto di umanità che gli studi, le dissertazione e le polemiche nei secoli gli hanno sempre tolto. Una narrazione ricca di sentimento e di poesia. Grazie.
Renzo