“Narodnicestvo”. Con questo termine la lingua russa definisce quel particolare movimento politico e culturale sviluppatosi alla fine del XIX secolo nelle terre della Moscova e che si rifà ad una sorta di “socialismo rurale”, in opposizione al dilagante pensiero burocratico-zarista e all’industrialismo di stampo occidentale. Come noto e per estensione, il termine è venuto identificando quell’atteggiamento ideologico che si basa sull’esaltazione demagogica del popolo quale unico depositario di valori positivi.
“Narodnicestvo” lo traduciamo con il vocabolo: “populismo”. Si tratta di una parola che racchiude in sé alcuni elementi che la caratterizzano: una carica demagogica ed egemonica che individua nel leader il responsabile di ogni agire in sintonia con il sentire popolare; un rapporto diretto fra tale leader, che generalmente vanta le sue radici popolari al fine di rendersi simile al cittadino comune e la massa che in lui si identifica; la capacità di cogliere pragmaticamente l’opportunità del contingente e la convenienza del momento, prendendo decisioni quasi esclusivamente sull’onda dei mutevoli umori delle “piazze”.
Si tratta quindi di un “pensiero debole” e che, proprio perché tale, necessita di continue verifiche circa la tenuta dei legami con il popolo, attraverso ogni possibile forma di consultazione, atta a legittimare l’ondivaghezza dei percorsi politici e a mantenere saldo il dialogo diretto con il leader. Su quest’impianto di massima, si innesta anche il rifiuto della coerenza; una costante mobilità legata alle dimensioni emotive e un marcato disprezzo per “l’Altro”, in quanto non assimilato e non conforme e quindi pericoloso. Per tali ragioni ogni differenza e diversità diventa, ben presto e nel contesto della retorica populista, il “nemico del popolo”, al quale addossare ogni responsabilità.
Un uso spasmodico e martellante della propaganda, sia con l’utilizzo dei media tradizionali e soprattutto delle reti social e l’assenza di ogni forma definita di struttura politica, accanto alla negazione di qualsiasi organizzazione del pensare, determinano quella “forma liquida” e movimentista attuale del populismo che è, in realtà, solo “antipolitica”, cioè una categoria che non poggia sulle tradizionali basi dell’ideologia e delle forme-partito, bensì sulla “narrazione”, ovvero su di un racconto della realtà, talora sospeso fra verità e fantasia, adattato alle esigenze del momento ed alle loro mutazioni e che quindi non è la realtà stessa.
Garante di una democrazia solo formale, il populismo fa sempre leva sulla “difesa degli interessi del popolo” e si nutre di pulsioni autoritarie alimentate da concetti semplici, quanto pericolosi, come: “uno vale uno”, “democrazia diretta”, “noi e gli altri” o slogan qualunquistici, come i “vaffa”, che celano scelte e comportamenti in antitesi ad ogni cultura democratica e che, nel loro manicheismo, fanno intuire da subito dove stia il torto e dove la ragione.
Il populismo è insomma una forza decostruttiva della democrazia, pur non sapendo opporre a questa alcuna alternativa credibile e realizzabile, perché insegue la storia, anziché anticiparla e interpretarla, costituendo in ciò una necessaria anticamera culturale alle derive autoritarie che mirano alla sospensione del processo democratico.
Al populismo inoltre, non interessa affatto la prospettiva, la lunga deriva, la visione del futuro, cioè quegli elementi essenziali alla maturazione democratica come insegna la lezione di Aldo Moro, ma solo una febbrile attenzione al contingente e ad un immanente presente, privo di valutazione alcuna delle ricadute future di ciò che si realizza oggi. L’obiettivo è quello di assecondare le attese del popolo, indipendentemente da qualsiasi valutazione sul loro contenuto ed opportunità, inseguendo, conservando e sviluppando ogni singola quota di consenso.
Per il resto, conta il dialogo diretto del leader con le folle, come ci ricordano le figure di Mussolini, Hitler, Stalin, ma anche Kim Il Sung e Fidèl Castro; un dialogo che è in realtà un monologo dove si mescolano anticapitalismo e antielitismo, giustizia sociale e pacifismo generico, antiglobalizzazione e retorica sul passato, in un miscuglio così elastico da poter contenere perfino le rivolte no-vax, al pari di quelle terrapiattiste e complottiste ed in un calderone idoneo esclusivamente a mantenere il surf del consenso sulla cresta dell’onda.
Dall’esperienza dell’“Uomo qualunque” guidata da Guglielmo Giannini al berlusconismo; dalla galassia pentastellata alla Lega Salvini, solo per stare in Italia e poi in Spagna “Vox”, in Ungheria “Hobbit e Fidesz”, in Germania l’AfD ed in Francia il Rassemblement National” ed il “trumpismo” americano, sono i principali interpreti oggi del “populismo” nell’emisfero occidentale. Lo nutrono di cupi orizzonti e di narrazioni dense di paure, disegnando soluzioni semplicistiche ed alimentando ogni forma di razzismo e di esclusione, a partire dall’antisemitismo. Solo loro paiono possedere la ricetta salvifica, il santo Graal, dal quale attingere forza e risposte per il futuro di quella parte dell’umanità che li ricomprende, mentre l’altra è destinata a perdersi nel gorgo della storia e della propria incapacità di omologarsi. In questo senso vanno lette anche molte vicende attuali. Le catene ed il rischio di una lunghissima e ampiamente sproporzionata detenzione in condizioni barbare di una cittadina italiana, accusata di un reato da noi risibile come la rissa ma caricato invece di arcani segreti complottisti in un paese fragile come l’Ungheria di Orban, è la plastica rappresentazione di queste paure. Dopo aver provato con “l’ebreo Soros”, scaricando sulla sua identità semita ogni colpa del presente e adombrando il sempiterno complotto universale ebraico, ecco adesso un nuovo nemico: la straniera, violenta che viene in casa nostra e cerca di uccidere i nostro confratelli, in nome di ideologie malate come quelle antifasciste La vicenda di Ilaria Salis è insomma il prototipo della narrazione populista e colpisce non poco per il suo attecchire in una realtà colta e civile come l’Ungheria di Liszt, Molnar, Szent-Gyorgyi o Teller.
Eppure, pur vedendo con i nostri occhi gli effetti devastanti del populismo e delle sue incapacità di affrontare la realtà, le sue antinomie e il suo divenire, ancora questa suggestione ideologica affascina e raduna consensi, in un crescendo che turba e spaventa, perché prefigura scenari di “scontro finale” fra il bene e il male, che porterebbero alla distruzione della civiltà per come la conosciamo.Conforta solo un po’ sapere che il populismo spesso si arena sulla battigia dei problemi veri e della loro dimensione e dipendenza planetaria, non avendo quella strumentazione culturale idonea ad affrontarli, che invece resta in mano alla democrazia pluralista e alle sue posizioni, anche distanti fra loro, ma capaci di mettere al centro ancora e sempre l’uomo, anziché la massa.