“Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley, il debole di carattere, il forte di braccio, il clown, l’ubriacone, l’attaccabrighe? Tutti, tutti, dormono sulla collina. Uno morì di febbre, un fu arso vivo in miniera, uno fu ucciso durante una rissa, uno morì in prigione; uno precipitò da un ponte mentre lavorava per i suoi. Tutti, tutti, dormono, dormono sulla collina”. È l’incipit dell’Antologia di Spoon River, una collezione di poesie scritte da Edgar Lee Masters e pubblicate su un giornale del Missouri tra il 1914 e il 1915.
In codesta stagione che sembra favorire un’intensa instabilità emotiva, che varia le sue accentuazioni nelle diverse latitudini e stimola “rivolte del pensiero”, per dirla col celebre studioso Mario Galzigna, esce da un cassetto una straordinaria “ballata di Pergine”. È stata scritta in anni passati da Ilaria Collini che ringraziamo per averci consentito di proporla ai lettori de iltrentinonuovo.it a cento anni dalla nascita dello psichiatra triestino Franco Basaglia che aprì i manicomi al mondo che era già un immenso manicomio di proprio.
LA BALLATA
DI PERGINE
di Ilaria Collini
1.Povero babbo caro,
tu a Tesino volevi rendermi del campo tuo cultore ma io
amavo, prediligevo, ambivo di risvegliarmi un giorno pescatore.
Da amabile parente quale eri, tu ti informavi da certi appigli tuoi
di mare e lago
al fine di un mio imbarco fra il popolo delle reti e intanto
mi incoraggiavi, i giusti attrezzi mi procuravi.
Quando un bel giorno salii di punta sul campanile
l’amo gettai e con mio gran stupore
in mia saccoccia presi il prete, le guardie, qualche infermiere.
2. Mammina mia adorata,
a Cavareno volevi fossi miglior massaia, la più invidiata, la più cercata
e alle novene pregavi il buon Gesù
di un maritino accorto, acconcio
scambiandolo a prezzo di due fioretti, di un tocco di candela in più.
Il Signorino, mia bella mamma, t’ha accontentato
fra i giovani del posto mi fa la corte Antonio
che ha scosse rispetto agli altri davvero poche,
fra tutti è alto, lindo e il meno abbrustolito.
3. Ho il letto allagato dai pensieri
allargato ho a perdifiato i nastri, le fascette
ma in mio potere non è spezzare di scienza le catene.
Se prima li sperdevo a rate fra corridoi e giardini
ora son qui assembrati tutti ad inquinare ciò che mi si coglie attorno
e spero faccia presto giorno e un’anima
caritatevolmente pia
mi venga a rassettar.
4. Lampi di buio blu,
rammento le folaghe d’estate schivar l’arsura.
Tuoni di rosso sgomento,
se ho vinto non ho perso, se ho perso grondante accorre il pianto.
Fasci di bianca sorte,
sotto un esile cipressin mi voglio barattar la guarigione con un istante di placata ubiquità.
Sulla cartella han scritto: trenta scosse.
Vi leggo: trenta disordinate danze di petto prese, a pugni, a morse.
5. Invoco la clemenza della corte.
Giù per Milano studiavo da avvocato e pure ero bravo ma
un giorno alla lezione il professore
diceva di codici e cavilli ed io
sentivo ronzarmi nella testa, per Giove!
fra zoccoli e nitriti
l’odor di cento e più cavalli.
Eppur non ho cessato di esercitare: qui un poco tutti hanno bisogno
del leguleio che in vece loro
si rechi dall’infermiere a perorare, discutere, probare.
Clienti ne ho a bizzeffe, la mia parcella è di pane un tozzo,
sto alla sbarra con gli imputati, i giudici un po’ corteggio un po’ corrompo.
Sol di una cosa rammarico io tengo: fuor dalla porta del camerone
non ho la targa con titolo e cognome.
6. Questa è egritudine coatta che di lenir
dei sintomi paura
affatto non si cura.
Rimpiango la mia stanzetta di bimbo febbricitante
ove star male era una perfida scalogna da risarcir con brodo, bacio, affetto.
Qui l’infermiere dall’occhio sguincio e col pizzetto
più io m’aggravo e più m’osteggia con livido diletto.
7. Da colto e dotto e fin dottore io sono
propugnatore della teoria di utilità sociale.
Dal fabbro al carpentiere ciascuno al mondo ci viene
per espletare il proprio suo mestiere
e rendere l’insieme meno guasto,
ciascuno si fregia di titolo e missione.
E poi ci sono i matti:
queste cisterne idiote che solo carità ti fa riempire,
intenti come sono il tutto a peggiorare.
Fosse per me darei appagato l’ordine di serrar le lor cucine.
8. Noi matti,
aguzzo mormorio di verità celate
brune cavità di misantropo mal senso.
9. Io son di Bondo e la mia mamma
al tempo giusto
m’ha illustrato le doglie, i patimenti a partorire
ma pur m’ha detto che stringersi il bambino al seno
è la più grande gioia a raccontare.
Se tu sapessi mamma alla scossa che pena ho da soffrire
ti stupiresti che a casa non ti torni quadrigemellare.
Ma lo psichiatra è un’ostetrica speciale che l’anima ti fa sputare e poi
smarrisce il nascituro.
10. Psichiatria.
Su questa branca medica io ho tragica, modesta opinione.
Inconfessata, occulta brama di punire
come l’adulto esasperato di fronte a un bambinetto ottuso
che sceglie di male comportare.
11. Colonia agricola La Costa. 21 m… . Sognando Spartaco.
Io sono qui che zappo, sarchio, sudo e vango.
Colla fatica mia ci mangia la feudale cittadella che chiaman manicomio:
malati, medici, infermieri, i preti, suore e occasionali assalitori.
Di tale multiforme torma avrò coscienza di una ventina,
chiamarli amici è tanto.
Il mio salario son dose da bisonte di calmante e di calvario.
Codesto tetro affresco scandisce del mio badile il colpo.
Mi salva solo il cogitamento: ogni ferita alla terra bruna
è verso la guarigione un varco.
Sempre, ad ogni caso Spartaco sognando.
12. Il manicomio è dell’umanità il serraglio.
Frenici, maniaci, spastici, idioti: ciascuno qui
mostruoso abitatore,
custode insano,
orrida fiera,
esempio al bacio del male suo
sia esso lungo o passeggero, o forte o piano.
E tu visitatore ignoto che visitando un po’ ti schivi sappi
se ognun di loro è un quadro tu per ciascuno avrai
due schegge di cornice da spartire.
13. Chi ha mal di mente la notte sognicchia poco e piano
che suo malgrado il giorno scorso
lo fece già abbastanza
desto restando.
14. Dal mio mestier psichiatrico io spesso mi ritempro
le forze attorno al cuor rassempro e fra me e codesto luogo
di terra oceani o d’acqua metto.
Il mio collega domanda quieto, quieto risposta ottiene.
Io interrogo, estorco, tramo,
col duol, l’inganno, la bruta forza ciò che io cerco io mi procuro
ma spesso invano.
Ciascun di loro è chiusa roccaforte,
che espone insegne in aramaico, in esperanto
a me che in altra lingua canto.
15. Cara sorella mia,
dai nostri monti rendenesi quaggiù son sceso a fare l’infermiere,
mi dicon m’abbian preso in grazia del mio vigore, te lo ricorderai, del resto
quando quei tronchi alti giocavo a sollevare…
Se un matto strepita lesto lo afferro, la carne sua possiedo ma il resto, lo so
è un’illusione.
Le ossa cauto stringo, il soffio d’anima
dal male
altrove, penso, è spinto ed io un saccone vuoto la petto tengo.
Quanto dai tronchi l’uomo sai è diverso
persino un piano montanaro qual me comincia a ragionarlo.
16. Io clamo, pretendo, voglio
che ognun nel refettorio ci porti il suo bagaglio e poi
col suo vicino del mal che porta addosso ne faccia cambio.
Sarebbe assai istruttivo ma il mio compagno alla proposta
la bocca sua spalanca e inviperito un raglio affranca.
17. La noia ha vinto, ci ha sopraffatto.
Il manicomio: rissoso coro di cupidi sbadigli a lento passo.
18. Qual donna mi si prende più?
Son vecchio, sdentato, sfatto.
A mezza bocca, laggiù in guardiola
di donna oscena io sento sussurar.
Che male mai avrà fatto poverina un simile, bruttin giudizio a meritar?
Se esco io le propongo: uniamo le due disgrazie, le due cattive reputazion
e nei freddi momenti di sconforto entriamoci l’un l’altro,
il dolce mistero della vita a rinnovar.
19. Ne ho due alle braccia, due alle reni
in questo bivacco opaco di umida complicità.
Non siamo in cinque, per vero son da solo.
Io, i miei pensieri.
Io, della mia mente le incongruenze scure.
Scantono e brucio.
20. Stanchezza e libertà.
Gli ossimori, se incatenati, regalano di verità spiraglio.
21. Da bimbo la nonna in premio mi dava lo zucchero sul pane.
Io mascalzone un poco poi di dito in scatola intingevo.
Ora lo zucchero è necessario antidoto a comatosa pratica,
non mi risveglio poi però affatto zuccherino, dolce, placato.
Piuttosto in gola ho l’amaro
d’esser messo a dormir,
ridotto a tacer
mio malgrado.
22. Io sono il Cerbero dei comatosi del primo camerone
ch’anno insulina in corpo quanta ne basta ad oscurare il lume di coscienza.
Son qui e passeggio a passo rado fra i placidi dormienti
vegliando alcun di loro non vada morto.
Ora mi sento un archivista che
muti faldoni ignaro indaga, scontento di sua sorte.
Ora una madre trepida, accorta che
fa la spola fra il letto suo, delle creature sue il giaciglio.
Ora un novello capitano che
custodisce il sonno del reggimento.
Ma i miei faldoni sono storti,
creature mie un po’ contorte e questo
è il reggimento del mio sconforto.
23. Marisa mia bella dagli occhi di stella,
per te a certe ore io vengo fra il parco nelle siepi,
ti salgo dolcemente dentro e
come cigno e cigna
all’amore involiamo, l’amore facciamo.
In questo mondo di freddo medicamento, di parola incarcerata
tu sei mia furiosa stilla di vita, incandescente di lava appello che viene a dirmi
quanto ancora umano sono.
24. Al parco le coppiette tubano, alcune più in là si spingono
e male che vada subiscono l’ammenda insipida d’un giovane carabiniere.
A me, Diletta mia adorata, per averti sul collo fra l’erba baciata
mi toccano due scosse e un po’ di contenzione.
Al cambio dell’amore lo vedi quanto t’amo
che il bacio tuo
parecchio più dell’usuale mi va a costare.
25. Luigino, ti prego non riportarmi a letto.
Lo vedi, ai piedi mi inginocchio, le mani porgo in croce
con l’occhio lucido della promessa giuro che ti starò tranquillo.
Anche quel pugno è il frutto di un errore, persuaso ero
che quel degenerato m’avesse di due panin frugato.
Luigino, ti prego, non riportarmi a letto
che è un eufemismo dir che mi sta stretto.
Ma tu non pieghi punto e coll’ Arturo e col Brutale
mentre io strepito da matto umetti le fascette,
m’indichi col capo il prezzo del contrappasso.
26. Fosse mia scelta, oltre certo ad esser dimesso,
invocherei d’esser fra le donne trasferito, in lor reparto.
Noi uomini crediamo di mettere al pianto un bel bavaglio e
che al gran sconforto
con celia, burla, riso maldisposto vada risposto.
Noi siamo isole concluse di malagio affranto.
Le donne pazze in lor difetto sono pur sempre
una nazione aperta, solidal di libero conforto,
sono una spalla spalancata al pianto ed
il dolor di una è di tutte perdizione.
27. Mi avverto tortora incolpevole
quanto batuffolo urta elettrodo
e il capo urtica.
28. Cardiazolo,
sfrigolio di perfidi coralli
al di sotto
della cupola della calotta.
29. Signor Meduna,
i pazzi del padiglion Ferretti
faranno una colletta di ringraziamenti.
Pensavi a noi quando creavi cura
che gli animi violenta,
coscienze dilacera e scarnifica,
anime sfrangia?
Ma se solo da chimico inseguivi
di una molecola chimera
venia ti concediamo.
30. Quanto grande può farsi il tuo fantolino
di pochi giorni partorito.
Quando in braccio lo tenevo, quando blanda lo cullavo
vitello grande e grosso mi appariva ed io
misera, indifesa
sotto l’altezza del suo peso.
Così me lo scansavo, me lo schivavo, me lo evitavo
scogitando false incombenze nel cucinino.
Quando mio madre, il padre suo
stupiti lo consolavan di mia assenza pure agli occhi miei tornava tenero piccino
e la tristezza, cupa, dilagava.
Di star qui in fondo son contenta che al vagito suo più non mi tocca di badare
ma prego i signor dottori mi facciano tornare presto ad esser buona madre.
31. Schierati a giorno per pillole, pastiglie, gocce
pariamo folla d’acume, astume, aguzia depredata
ed istigata a tenere speranze di acerbella sanità.
Infilati a sera per la terapia
pariamo medusa ossuta, imboccata al singhiozzo
vitale quanto la riga di sopra della guardiola il muro.
32. Voi pazzi, penombra assorta di meditata infatuazione
come lombrichi inconcludenti
in fila indiana
al magro pasto della vita.
33. Maremmano non faccio di cognome eppure a questo si riduce il mio officio.
Con l’occhio vitreo raduno di pecore matassa, la imbroglio, la scombino
e così lasca, ingarbugliata dietro me la strascino.
Giardino. Guardiola. Refettorio.
Tu, matto incandescente, rattremi al mio scoccante sguardo.
34. La disutilità misuro raccosciato nel canto destro del camerone.
La Pizia uno sbadiglio avrebbe a cantarmi la mia sorte,
l’oracolo di sonno un colpo.
Mentre invidio le ardenti frenesie dello studente, del lavorante che produce
l’istante del mio senso di missione
è laggiù per corridoi che scappa, fugge, fugge e fugge.
35. Un po’ è passato dalla distribuzione, il farmaco si fa sentire.
Subbuglio di sovratoni delle Valchirie
ma addormentate
alle pareti del mio sentire.
36. Fin da Cloz son giunto con furore
Io che sono il Signore, il Salvatore, il Cristo Redentore.
Ringrazi pure il carabiniere mi sia astenuto Io da ogni mio potere
contrario caso stante, quando agio avrebbe avuto lui ad imbrigliarmi?
Ho chiesto al medico perché sovra la testa sua tenesse ancora croce
ora che in vece della copia ha brillante, astante l’originale
ma muto tacque.
Io che ero somma Grazia, Potenza, Forza
qua dentro appeso, lo riconosco, son divenuto
fra i compagni di sventura
signore di mestizia.
37. Questo luogo è una congiura a strappare, sabotaggio oscuro a sradicare.
Dal corpo i vestimenti, dal piede lo scarpino e teneri gli affetti al cuore.
Per poi muto ritirare ed in un angolo l’animo mio di lacrime svenare.
Mamma, il portafogli m’han rubato con tua fotografia ma
osanno la maestra di quinta elementare ché
le poesie a memoria, quel gran conforto, nessuno me le potrà levare
e in quella notte di tutto m’han spogliato
di scarpe e d’acciarino
che non di me stesso.
38. Malarica insinuazione, entro il sangue vivido s’adagia
l’involontario maleficio di zanzara ed
il mio tremito di febbre a loro dire ricupera, rammenda, sana.
Io sento solo che fra questo di denti sbattimento
la malattia rinvigorisce.
39. Non curo umani, io curo enciclopedie
d’ogni sano vocabolo emendate che
debbo riscrivere fra le lacune.
Peccato non abbia affatto talento del romanziere.
40. Naufraghi di un finitimo limitare,
dalle zattere invochiamo guarigione ma la risacca, ahimè, è troppo forte.
Sperar però nessun ci toglie che
l’invenzione escogiti una cura almeno un poco più umana
che men conduca alla di dentro morte.
41. Suor Guglielmina, in corridoio insegue le infermiere
a cronometrare in quanto tempo il pavimento si va a pulire, fioriere a rinvasare.
Io sono qui impiccata a letto che prego inutilmente un poco d’acqua,
della bellezza artata da loro procurata non me ne curo ché
in simile luogo è solo una bestemmia all’assistenza.
42. Malinconie da manicomio,
le nostalgie che avete voi a paragone sono brodaglia lasca,
questo aguzzo sentimento di utilità smarrita
di mondo che, proseguendo, sorpassa, ci sovrasta, spicca
e tu fra quattro mura spesse passisci, muori
in generale indifferenza di chi ti salva, di chi ti cura.
43. Morto, rimorto, smorto quotidiano
seccato come tra il fieno i fiori
scandito dalle usuali rotte del mansionario
e dalle logoranti, ripetenti stranezze di malattia.
44. Amo la terra che se acqua versi beata se la sugge
dalla bocca scura.
Io sono qui che broda bevo usando il mio cucchiaio
ma poi soltanto quello reggo
per consumar contorni, secondi, carni.
Persino il pasto qui in manicomio
inno è librante alla nostra diversità.
45. Io son da Ala ed amo filosofare
come in cartella, papello mero di condanna, ci sta ben scritto.
A volte inquieto, mi devono sedare quando ripenso a Dio
più grande d’ogni mio pensiero eppur pensato
com’ente finito, ragionato.
Se escludiamo la cattiveria ci resta la bontà
e contemplata quella
chi ha gioito le spalle mie di un simile fardello a caricare?
Iddio pensare, io penso, è allora un pallido affare d’impotenza.
© Ilaria Collini e iltrentinonuovo.it