Nel Trentino dei riti (i “batedùr” di Storo, la sera del venerdì santo, tanto per citare, o altre “sacre rappresentazioni” che andavano in piazza e lungo le vie nei giorni della “settimana santa”) non c’è mai stata la messa in scena della resurrezione di Cristo. Forse perché più che una Pasqua la vita è sempre stata una Passione. Lo si fa nel Sud Italia dove la dominazione spagnola ha lasciato segni profondi: anche nel costume. Dopo le sacre rappresentazioni della Via Crucis con centinaia di figuranti, con soldati “romani” a cavallo e il personaggio del Cristo coperto del solo perizoma, il giorno di Pasqua è legato all’incontro-scontro di due processioni. L’una con la statua di Gesù Cristo, l’altra con quella della Madonna, coperta da un velo nero. La più nota è quella di Noto, in Sicilia, ma la Calabria non è da meno, come racconta Joseph Tassone che ha rispolverato per noi i ricordi d’infanzia.
L’incontro tra Cristo risorto e la Madonna ancora incredula è chiamato l’’“Affruntata” o la “Cumprunta” (incontro, faccia a faccia). Sublimando l’iniziale incredulità umana di fronte alla Resurrezione, si rievoca l’incontro tra Gesù risorto, la Madonna e S. Giovanni apostolo, le cui statue vengono trasportate a spalla, fatte “incontrare” e poi portate in processione per le vie del paese.
Quand’ero bambino per me la domenica di Pasqua era essenzialmente questo: andare tutti insieme a messa a Cittanova, nella chiesa del Rosario, nostra parrocchiale, e poi correre in macchina a Rizziconi, 15 km in direzione ovest, verso il mare, perché lì alle 12 in punto facevano l’ “Affruntata” più bella dei paesi vicini, con Sangiànni che addirittura faceva tre giri (mica uno come da noi in collina!) per convincere la Madonna che il Figlio veramente era risorto e, dopo la svelata, c’erano gli spari, vale a dire i botti (parlando della Calabria, è meglio specificare, sai mai che s’imbatta in queste righe qualche svedese di passaggio), di cui io avevo peraltro una paura folle.
Dopo, la faccenda continuava con la processione delle tre statue affiancate, ma noi si tornava a casa, lo spettacolo era finito e le fatiche culinarie delle donne di casa reclamavano attenzione.
Nei miei ricordi soltanto pochi, nitidi fotogrammi: un terribile parapiglia di gente, papà che mi mette cavalcioni sul collo perché possa vedere quel che succede, l’attesa spasmodica – fomentata dal nonno improvvisatosi speaker a mio esclusivo beneficio – di quando Maria, scorgendo all’altro capo della piazza il Figlio, getterà il velo nero del lutto e, infine, ancora io che mi premo le manine sulle orecchie per non sentire gli spari.
Eravamo greci col gusto del dramma e spagnoli nel barocchismo delle emozioni, ma io non lo sapevo ancora… Χριστός ἀνέστη, che in greco vuol dire: Cristo è risorto.