Il parlamentare socialista Giacomo Matteotti (origini della famiglia a Comasine, in val di Peio) fu assassinato dai sicari fascisti il 10 giugno 1924. Il dissidente russo Aleksei Navalny è stato assassinato “dal gelo” (?) il 16 febbraio 2024 in un carcere della Siberia dov’era detenuto, condannato a trent’anni di prigione perché “antagonista” di Putin.
Due sorrisi diversi, eppure un’identica mestizia. Per uno strano gioco della casualità il sorriso pieno, su una fotografia ingiallita dal tempo, dell’on. Giacomo Matteotti emerge dalla pagina di un libro aperto sul mio tavolo e che sta accanto ai giornali di questi giorni e a un altro sorriso amaro, quello di Aleksei Navalny, ucciso, in questi giorni, dall’arroganza e dalla paura cieca e violenta di un’altra oppressione dittatoriale.
Forse fra quei due sorrisi non ci sono elementi ideologici comuni, se non un impegno autentico, totale e consapevole per il diritto di dissentire, nella consapevolezza dei rischi che corrono tutti coloro che non si piegano all’orrore delle autocrazie. Ieri quella del maestro di Predappio ed oggi quella del bambino povero di Leningrado diventato un agente del KGB. Entrambi hanno spento quei sorrisi definitivamente, infliggendo una condanna estrema al coraggio della speranza
Poco prima di essere uccisi – Matteotti dalla “Ceka” dello squadrismo fascista e Navalny da una mano di Stato che resterà per sempre impunita – il primo denunciava i brogli elettorali del novello dittatore italiano, mentre il secondo proclamava la risibilità delle elezioni presidenziali russe, già vinte in partenza da chi si candida dopo aver eliminato ogni antagonismo possibile. Ieri moriva Matteotti per ordine di Mussolini, che si affrettava a dichiarare che “l’ipotesi di un delitto, se compiuto, non potrebbe che suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del parlamento” e oggi muore Navalny mentre Putin ordina l’apertura di un’inchiesta per far luce sulle cause di una scomparsa “improvvisa ed inattesa” e già dichiarata “per cause naturali”, come tutte quelle che producono morte e sparizioni nelle dittature. Ma non basta.
Come noto, Matteotti viene ucciso, non solo per la denuncia parlamentare delle elezioni-farsa del 1924, ma anche per il fondato timore di sue rivelazioni su di una vasta corruzione legata alle politiche petrolifere ed agli interessi di alcune multinazionali dell’epoca come l’americana “Sinclair Oil”. Allo stesso modo Navalny viene incarcerato – e quindi ucciso – per aver ripetutamente smascherato, non solo l’autocrazia del potere russo, ma anche l’enorme ed endemico livello della corruzione sulla quale si regge il dominio putiniano ed in genere quello di tutte le dittature.
Vicende oltremodo simili, che ci parlano di una violenza identica, di una stessa ipocrisia, della medesima arroganza, a dire che la storia – che siamo noi – scorre spesso e ancora invano, non insegnando, non raccontando e, soprattutto, non impedendo il ripetersi.
Matteotti e Navalny. Due sorrisi spenti nella crudeltà di autoritarismi sempre uguali, nelle loro diversità di superficie, perché sempre nemici di ogni libertà e di ogni diritto.
Ci confortano oggi, davanti a tanto orrore, le parole attualissime che Filippo Turati, durante una cerimonia tenutasi il 27 giugno 1924, seppe dire in morte di Matteotti: “… Il fratello, quegli che io non ho bisogno di nominare perché il Suo nome è evocato in questo stesso momento da tutti gli uomini di cuore al di qua e al di là delle Alpi e dei mari, non è un morto, non è un vinto, non è neppure un assassinato. Egli vive, Egli è qui presente e pugnante. Egli è un accusatore; Egli è un giudicatore; Egli è un vindice. Non il nostro vindice, o colleghi. Sarebbe troppo misera e futile cosa. Egli è qui il vindice della terra nativa; il vindice della Nazione che fu depressa e oppressa; il vindice di tutte le cose grandi che Egli amò, che noi amammo, per le quali vivemmo, per le quali oggi più che mai abbiamo, anche se stanchi e sopraffatti dal disgusto, il dovere di vivere. E il dovere di vivere è anche, e soprattutto, il dovere di morire quando l’ora lo comanda. Di morire per rivivere; di morire perché tutto un popolo morto riviva. (….) È lui ed è tutti. È uno ed è universale: è un individuo ed è una gente. (….) Uccidete me, ma l’idea che è in me non la ucciderete mai!
È per tali ragioni che se quei sorrisi non si spegneranno mai, noi troveremo sempre nuove ragioni per proseguire, per insistere, per credere nel bene supremo della libertà e della dignità. Che sia loro lieve la terra.