Trento è città d’Europa, anzi: la capitale europea del volontariato. Ed è una bella soddisfazione per chi (Giorgio Casagrande in primis) ha lavorato per un riconoscimento internazionale siglato a Trento dalla presenza, sabato 3 febbraio, del presidente della Repubblica italiana, Sergio Mattarella.
Ad ascoltarlo, al palazzetto “T-Quotidiano Arena”, a Trento sud, c’erano mille volontari in rappresentanza di centinaia di associazioni del “terzo settore” e 400 studenti che sono (dovrebbero) essere la riserva del volontariato prossimo futuro.
E poi c’erano i sindaci (quello di Trento grondante soddisfazione, ci mancherebbe!) e il presidente della Provincia autonoma, Fugatti. Il quale, di fronte all’intervento di Luca Bronzini di Penny Wirton, il gruppo che insegna l’italiano ai richiedenti asilo, ha mostrato un aplomb da navigato leghista. Non ha applaudito (ci mancherebbe!) come hanno fatto tutti gli altri invitati alla cerimonia, ma con nonchalance ha rilasciato all’Adige la seguente dichiarazione: “Non l’ho vista come una critica nei confronti delle istituzioni. Non sarebbe stato il luogo, oltre che irrispettoso rispetto al presidente della Repubblica”.
Che cosa aveva detto, poco prima, il volontario di Penny Wirton? Il T-quotidiano lo scrive sotto il titolo “Accoglienza, applausi a Bronzini”: “Noi ci siamo, e siamo in tanti e auspichiamo attraverso queste celebrazioni un ben maggiore impegno da chi è preposto istituzionalmente all’accoglienza”: Ancora: “Sentiamo che è umanamente insopportabile ostacolare le aspettative ed i progetti di vita di questa umanità”:
Incalzato dai giornalisti, mentre il presidente Mattarella era già in volo verso Roma, Fugatti ha negato (cioè non ha capito) che ciò che aveva detto Bronzini fosse una critica o una sollecitazione (e quando mai?) “perché il Trentino sta già facendo molto in tema di accoglienza”.
Vero: un certo Trentino. Con la Provincia a trazione leghista impegnata, e non da oggi, a smantellare ciò che era stato costruito negli anni da quei pasticcioni del centrosinistra impegnati all’accoglienza ma ben più dediti a farsi la guerra tra di loro. E i risultati, nelle urne, si sono visti e rivisti.
Bronzini si metta l’anima in pace. Non saranno le belle, condivisibili parole, pronunciate al cospetto del capo dello Stato a scalfire le facce di bronzo di chi vagheggia ponti faraonici e intanto alza muri di diffidenza e di indifferenza. Lo slogan caro ai padani “Aiutiamoli a casa loro” si tramuterà in qualcosa di concreto (forse, quando, chissà?) col “piano Mattei” della primo ministro. Anche se è lecito nutrire serissimi dubbi.
Abbiamo visto con i nostri occhi, negli anni Novanta del secolo scorso, che fine hanno fatto, almeno nell’Africa subsahariana, gli “aiuti” stanziati dall’Italia (Legge n. 73/1985 Piccoli-Pannella), 1.900 miliardi di lire (1 miliardo di euro al soldo di oggi) per combattere la fame nel mondo. Progetti faraonici lasciati a metà; fabbricati che dovevano servire come ospedale rimasti senza fognature e servizi essenziali; magazzini di stoccaggio delle derrate alimentari costruiti a pochi passi da quelli governativi già esistenti e pertanto lasciati vuoti; decine di “fuoristrada”, mandati dall’Italia, finiti fuori strada o a bordo pista con le sospensioni rotte dopo pochi chilometri di viaggio. Più che aiutare l’Africa, quegli stanziamenti miliardari servirono ad “aiutare” le aziende italiane che esportarono nel continente nero i fondi di magazzino.
Del resto, di che stupirsi? Negli anni Sessanta (1967-1970), al tempo della guerra del Biafra (la secessione in Nigeria dopo la decolonizzazione) e mentre arrivavano appelli dai missionari per le popolazioni decimate dalla fame, l’Italia gonfiò il petto. E mandò una nave di medicinali. Erano pillole per digerire.