Dicono che il primo maggio è la festa del lavoro. Forse, in questo 2023, bisognerebbe aggiungere l’aggettivo “precario”. Festa del lavoro precario, ecco ci sta proprio bene. Oddio, per chi è precario ci sta proprio male. Ma così è. Così, probabilmente, sarà anche in avvenire.
E pensare che una volta, ai nostri tempi, che erano anni di contestazione e di rivoluzione (anche nel mondo del lavoro) ci dicevano che il “sol dell’avvenire” era il futuro del mondo, non solo socialista. Quando tutti sarebbero stati lavoratori, tutti sarebbero saliti sull’ascensore sociale, tutti sarebbero stati felici. Sappiamo tutti come è andata a finire. Per qualcuno di noi l’ascensore è salito di qualche piano, per molti si è inceppato prima ancora di prendere il via.
La classe operaia, che ai nostri tempi andava in Paradiso, oggi non solo si è inabissata verso l’inferno (del precariato e del lavoro pagato male) ma è pure scomparsa dall’orizzonte. La Michelin, la fabbrica delle tute blu, per antonomasia, almeno a Trento, non solo è stata cancellata dal centro residenziale delle Albere ma non è rimasto nemmeno un muro a rammentare le migliaia di operai, di uomini e donne, che dal 1927 al 1997 hanno faticato, imprecato, bestemmiato e portato a casa una “paga” che è servita a crescere la famiglia. Il cottimo e i “capetti”, il sindacato dei metalmeccanici e il prete operaio, le minacce e i ricatti. Un mondo. Finito. Scomparso.
Oggi domina il terziario, imperano le “start-up”, tutto ciò che consideravamo progresso rischia di seppellire anche ciò che resiste del lavoro intellettuale. Di quello manuale, probabilmente, qualcosa ancora resterà. Chissà per quanto e come.
Per restare nel nostro pollaio di cronisti prestati alla penna d’oca, basta dare un’occhiata ai nuovi media, alle nuove “opportunità”, ai “motori di ricerca” che tutto macinano e tutto rendono frattaglia. ChatGPT, per esempio, sostituirà a breve il lavoro dei giornalisti (che sono lenti, costano e rendono meno di quanto frutta la “macchina”) e i giornali e le informazioni saranno sfornate in un soffio. Vuoi un articolo sulla guerra civile in Sudan? O un’analisi sul futuro dei mercati? O la cronaca di una partita di calcio che tu non hai visto ma il satellite sì? Venti secondi e avrai cronaca, storia, prospettive, cartine, immagini a corredo del testo. Di tutto, di più. L’unico compito del giornalista sopravvissuto allo sterminio di massa dei cervelli sarà quello di controllare le pagine, verificare che il titolo corrisponda ai desiderata dell’editore. Di venti cervelli umani ne basterà e avanzerà mezzo.
Adesso poi che anche l’indicazione dei mestieri deve seguire il protocollo del genere, il maschio che sarà iscritto all’ordine di coloro che sono deputati a fornire notizie dovrà chiamarsi “giornalisto” perché “giornalista” sarà solo la collega. Chi condurrà l’autobus ed avrà gli attributi maschili dovremo chiamarlo “autisto”, e via discorrendo. Per fortuna che la segretaria generale del PD ci ha fatto sapere tramite “Vogue”, rivista di classe (non operaia), che per scegliere gli abiti si avvale di una personal shopper, una signora che a 400 euro l’ora (la paga oraria di un metalmeccanico) offre consigli su abbinamento di colori e nuance. Più che la svolta della Bolognina è la svolta della bolognese. “Compagni dai campi e dalle officine, prendete la stoffa, prendete ago e filo, scendete giù in piazza, cercate il profilo di chi fa la pazza, di chi ha perso il filo…”: della storia e della decenza.
Primo di maggio di un anno da dimenticare. Come altri che verranno. Probabilmente.
E intanto la “giornalista” Patrizia Belli scrive per rammentare com’era il lavoro di una “cronista” negli anni che furono, quando lei era ancora una mosca bianca. Oggi le colleghe che fanno informazione sono il 30% di coloro che sono iscritti/e all’ordine professionale. Più di 320. Anche per loro è una festa del lavoro dal sapore amaro. Perché se c’è una categoria di precari e di precarie è proprio quella dell’informazione. Che avrebbe molto da dire e, ca va sans dire, anche molto da farsi perdonare.
La mia fortuna farlocca
Leggo e sorrido. Avvocato o avvocata? Io ho avuto fortuna perché il termine “giornalista” vale per il femminile e il maschile. Ma è stata una fortuna farlocca.
Ma il mondo dall’altra parte mi considerava come giornalista? No.
Squillava spesso il telefono e se rispondevo io che ho voce di donna, senza tema di smentita, era immancabile – ma proprio immancabile – la richiesta: “Per favore mi passa un giornalista?”. Maschile. Sempre.
Il giornalista doveva essere uomo.
Non c’era storia. Io, al più, ero la segretaria di redazione. Ogni tanto farfugliavo: “Se vuole parlare come me…”.
Ma no, no non c’era storia. “Mi passi un giornalista per favore”.
Grazie mondo, ho imparato molto.
Patrizia Belli