Tornano le notti delle zucche vuote, del “dolcetto scherzetto”, di Halloween. Quelle manifestazioni che con la nostra cultura c’entrano meno di niente. Qualcuno, infatti, dovrebbe spiegarci che cosa abbiamo a che fare con quella carnevalata di fine ottobre, coi bambini vestiti da scheletri ambulanti, come degli Zombie, che suonano ai campanelli delle abitazioni per spaventare (?) chi è intento a consumare la cena. E che cosa c’entra tutto questo con la festa dello Semhein? Ovvero una delle quattro celebrazioni stagionali, coincidente con il capodanno celtico, che cadeva il 1° novembre. Segnava, per i Celti, non per noi, la fine dell’estate e il principio dell’inverno.
A scuola, dove la festa di Halloween pare diventata più importante del Natale, potrebbero almeno raccontare ai bambini “halloweenizzati” chi furono i Celti. Quelle antiche popolazioni dell’Europa continentale, le quali, attorno al 2000 a. C., si espansero verso la Gallia e le isole britanniche, per poi dilagare verso il sud Europa, fino a Roma che devastarono nel 390 a. C.
E forse a scuola gli/le insegnanti questo lo potranno fare. Perché i genitori del terzo millennio sono molto attenti alle tradizioni/traduzioni di importazione. Un po’ meno, anzi: in talune scuole persino contrari, lo sono in riferimento ai riti. Se poi coincidono con la religione cristiana, Dio li scampi e liberi.
Arriva notizia in questi giorni da una scuola di periferia (ma il centro non è più possibilista o aperto, dipende da scuola a scuola) che i genitori starebbero alzando barricate contro la proposta di un insegnante di portare i pargoletti a far visita a un cimitero. Apriti cielo! Non si vorrà mica traumatizzare l’infante con l’idea della morte, che poi si dovrà portare dallo psicotarapeuta? Chi lo salverà dagli incubi notturni che quella folle idea di visitare un cimitero potrebbe facilmente provocare?
Quando la morte era considerata per quello che è: un evento naturale e parte dell’esistenza, i bambini erano accompagnati a casa del defunto. Taluni persino accostati al cadavere perché ne potessero vedere i lineamenti. Non si parla del Medioevo, si rammentano episodi di pochi decenni fa.
Per i bambini della scuola materna era usuale partecipare ai funerali, tutti in fila con un fiore in mano, così poi la famiglia in lutto avrebbe fatto una donazione all’asilo. Che era privato ma dell’intera comunità e, in quanto tale, andava sostenuto anche con queste elargizioni estemporanee. In tal modo i bambini sapevano che la morte fa parte della vita, che “ognuno di noi ha una data di scadenza”, come informano i tanatologi (gli specialisti che studiano e aiutano a elaborare l’idea della morte). Nessuno è immortale e il non parlarne o cercare di esorcizzare l’argomento con gesti scaramantici non allontana o sposta di un minuto “l’ultimo viaggio”.
Certo, è umano avere paura, il non sapere che cosa c’è dopo di noi. E non ci sono dotti o analfabeti, poveri o ricchi che guardino a quel traguardo senza apprensione. Anzi, sono soprattutto quelli che “hanno tutto”, come si dice, a esserne terrorizzati. Perché il denaro può comprare molte cose ma non l’immortalità.
I credenti, almeno, sperano in un aldilà. Chi non ha questa ciambella se gli chiedi che cosa c’è dopo la morte risponde secco: “Il cimitero”.
Ecco, per tornare all’argomento, proibire una visita al cimitero, in questi giorni che i cimiteri sono più curati del solito, pare una sciocchezza. Da zucche vuote, appunto.