Si aprono voragini nelle nostre incerte certezze di abitatori di un pianeta perennemente violentato da quello che chiamiamo progresso. È il costo che siamo chiamati a pagare per i mille egoismi di ciascuno di noi. L’urlo muto della Marmolada, con le sue vittime e la sua violenza non è che l’ennesimo allarme a cambiare: stili di vita e di consumo. Prima che il baratro inabissi anche quel che resta delle nostre fragilità.
Le tragedie non hanno mai racconto. Le tragedie parlano con la voce del proprio frastuono. Le tragedie consumano in un attimo storie che hanno secoli. Le tragedie falciano le vite e mutano i destini. Le tragedie sono inenarrabili. Solo i numeri ne parlano.
3.7.2022. ore 13.45. 1 valanga: 7 vittime, 10 feriti, 18 dispersi (a tutt’ora). 10.3 gradi di temperatura oltre i 3.000 metri di quota, ieri. 4 probabili cordate; 300 km. orari di velocità nella discesa del mostro; 300 metri di fronte dello stesso; 2 km. percorsi dalla furia. Numeri. Numeri che raccolgono ciò che resta in Marmolada di una domenica estiva troppo, troppo, troppo calda. Una domenica lacerata dal tuono che precipita, divorando la montagna in un groviglio di ghiaccio, roccia, pietre, neve e vite.
Ecco. Le tragedie sono queste. Sono l’improvviso che si scatena dopo una immobilità ghiacciata e durata secoli, ma sono anche il richiamo a non sentirci onnipotenti signori di ciò che ci circonda.
E’ un lamento di immensità che si leva da quella nube di materia fredda e rocciosa che ha travolto tutto; un lamento che strappa lo sgomento e prova a parlare a coscienze distratte e sorde.
Da quanti anni scienziati, esperti e uomini della montagna predicono la sventura? Da quanti anni lo studio dei fenomeni ambientali e climatici avvisa dell’incombere del rischio? Eppure non importa nulla.
Sempre più consumo e sempre meno rispetto. Ed è allora che qualcosa scatta e si muove nel ventre della terra, per reclamare attenzioni purtroppo ormai evanescenti.
Valanghe, slavine, tempeste, cicloni, tornado, terremoti e quant’altro la rabbia repressa di un ambiente violentato e deriso è in grado di esibire si affollano sul nostro futuro, mentre continuiamo ad infischiarcene, nella convinzione che il problema sarà dell’altrui domani e molto meno del nostro oggi. Ma non è così. Non è mai così. Ed in una domenica estiva la montagna alza la sua ira e la scatena senza freno, tranciando d’un tratto sogni e speranze e illusioni e progetti e sorrisi e cuori, ormai assorbiti dalla materia che li ha resi polvere.
Certo, proviamo ad abbracciare, con sincero affetto e cordoglio, le vittime, le loro famiglie, i feriti, i sopravvissuti, confidando che il sorriso di Dio possa illuminare il domani di chi ha perso i propri Cari. Eppure anch’ Egli pare nasconderci il suo volto, dentro quel seracco esploso. Anch’ Egli sembra silente e basito davanti a tanta naturale ribellione. Dio non ci parla ed è nel suo silenzio che scorgiamo tutta la grandiosità dei nostri limiti, anche se fingiamo di non vederla ed altrove ruotiamo lo sguardo per riempirlo ancora di effimero.
Ma quanto durerà il ricordo di quegli attimi di orrore? Quanto tempo impiegherà la memoria della tragedia a farsi nebbia lontana?
Non si deve morire così, ma almeno questo spaventoso andarsene sul “sentiero ultimo” insegnerà qualcosa all’arroganza umana che crede di possedere la chiave del mondo? Rimarranno solo i numeri a dire quanto e quale cicatrice lascerà il segno, mentre infinita cala la sera anche sui nostri sguardi che ancora fissano la potenza della tragedia.