Domanda intrigante: è nato prima l’uovo o la gallina? Secondo gli scienziati la primogenitura spetterebbe alle uova poiché sono stati trovati esemplari fossili di 350 milioni di anni fa. Quanto alle galline, o esseri simili, sarebbero comparse “solo” 50 milioni di anni fa. E poiché dentro l’uovo si sono verificate le maggiori trasformazioni evolutive, l’uovo è da sempre il simbolo della rinascita che, per i cristiani, coincide con la Pasqua. L’adozione delle uova come simbolo pasquale e beneaugurante è stata la naturale conseguenza.
Nel Trentino contadino, a Pasqua, ci si disputava l’uovo sodo in una serie di gare all’aperto. Dal tiro all’uovo con la monetina, alla sfida fra due contendenti con un uovo sodo in mano da battere l’un contro l’altro. Il “gioco” a eliminazione, era chiamato “pechenàda”, dal tedesco backen, cuocere. Uova cotte, appunto. In Val di Non è detto il “gioco delle pèkene” e si batte a “piz e cof”. In Val di Cembra si dice “battere a scocèt”. In val di Fiemme “pechenàr” significa anche battere, picchiare.
Ognuno dei due giocatori tiene un uovo (sodo) in pugno, vi lascia emergere soltanto la sommità (la ponta o ‘l cul). Le uova sono battute l’una contro l’altra. Vince chi riesce a ritirare l’uovo intatto. Il vincitore conquista l’uovo dell’avversario battuto. E ricomincia con il vicino.
Per la cottura e la tinteggiatura delle uova si usavano foglie d’edera (diventavano di colore verde oliva), i fondi del caffè (prendevano la tinta marron) o le foglie delle cipolle per farle diventare di colore rosso mattone. Preparato il “fondotinta” si procedeva alla decorazione con colori a tempera.
Raccontava Simon de Giulio (1912-1987) nelle sue “Usanzes” che in Val di Fassa “già nei giorni precedenti la Pasqua, le giovani si recavano in campagna per cercare sedano dei prati accanto alle sorgenti o dove la neve aveva cominciato a lasciare il posto alla prima vegetazione. Le uova erano avvolte con foglie di sedano o bucce di cipolla e fatte bollire nella tintura affinché assumessero la decorazione desiderata. Il colore artificiale che si adoperava con più frequenza era il rosso carminio, chiamato in Fassa anelin. La tintura delle uova era eseguita il sabato santo dalle giovani in età da marito, sotto la premurosa vigilanza delle madri che presiedevano alla buona riuscita dell’operazione. Venivano quindi donate ai corteggiatori che verso sera si recavano in visita, ed erano considerate alla stregua di un pegno d’amore”.
Più diffuso era il lancio della moneta nell’uovo. Di solito, teatro della sfida era l’angolo sul sagrato della chiesa. Si cominciava subito dopo la messa di Pasqua. Le uova erano disposte in fila, una accanto all’altra. Vinceva colui che riusciva a colpire il bersaglio con il taglio della moneta e conficcarla dentro l’uovo.
Scriveva Sergio Bertolini (Popolo e piazza nell’antico mondo contadino, usanze, vicende, giochi in terra Trentina, 1988): “La domenica di Pasqua, dopo la messa cantata, [i ragazzini] uscivano di chiesa e presentavano ai giocatori queste stupende uova appoggiandole al muro di una casa, o della chiesa, bene in vista, pronte per il gioco. Il giocatore che voleva centrare il bersaglio, tirando la moneta, doveva restare alla distanza di circa tre metri. Generalmente l’uovo era strapagato, poiché da questa distanza era ben difficile centrarlo, far entrare nel guscio “il soldo” da dieci centesimi, “da dese schéi”. Quando però l’uovo era pagato, il ragazzino concedeva al giocatore di potersi avvicinare di qualche metro al bersaglio, fin tanto che la moneta non entrava nell’uovo. A volte, capitava che qualche giocatore fortunato e dalla mira perfetta, “’n cazador”, centrasse l’uovo al primo colpo. […] Durante questi giochi, nella domenica di Pasqua, non mancavano le sorprese, dentro queste uova. I “burloni” si presentavano sulla piazza con l’uovo più bello, il più decorato, per attirare l’attenzione dei più sfegatati tiratori. Ma l’uovo di questi burloni era veramente imprendibile perché dentro al guscio, abilmente vuotato, era stato messo un impasto di gesso”.
A Canale di Pergine, per il gioco “dei ovi” si usava una moneta – un soldo da 5 o dieci centesimi – e per renderla tagliente i ragazzi la ponevano sulle rotaie della ferrovia perché fosse schiacciata dal treno in corsa. “Chi tirava la moneta più vicina [alle uova] si prendeva il castelét, vale a dire le cinque uova messe in gioco, oppure le monete [giocate fino a quel momento]; un gioco simile, praticato dai bambini, era quello della bina”. (Salvatore Piatti, Jole Piva, Canale nella storia, 1998)
Oggi c’è chi ricorda con nostalgia (ma forse è soltanto colpa dell’età) quel gioco d’innocenza e di furbizia. Il “poeta di Dio”, don Valerio Bottura da Aldeno, morto a cento anni il 13 dicembre 2019, lo aveva messo persino in rima:
Quando tre ovi i valeva na lira/ da me zia Milia t’en ciapevi um,/ e po’ bastea de averghe la mira/ per far fortuna davanti al comum./ En dì de Pasqua con n’of en scarsela/ encolorì de ross, zigola e blu,/ coro via ‘m piazza e za càpito en quela/ che sen zercheva de meterghe su./ Se fa la fila de tuti i putei/ che ghe tireva a tre metri e mez/ e mi su ‘n zima per binar i schei/co la speranza che ‘l me dura en pez./ Ciac! en bel colpo de un militar/ pena rivà chi dai tiri d’inverno; nol me lassa ma gnanca vardar/ che ‘l so vintim el ghè tut al’interno./ No ho fat na lagrima né na parola…/ ma son restà live sec come en cioldo,/ e l’altro che ‘l m’à vist col grop en gola/ el m’à lassà e l’of e anca el soldo”.
Alla sera, nelle osterie del paese, cominciava un’altra sfida tra bulli. Vinceva colui che fosse riuscito a trangugiare il maggior numero di uova sode. Resiste ancora, in alcuni paesi della Val di Non, “l’of sul cuciàr”, l’uovo che si pone su un cucchiaio tenuto tra i denti. I partecipanti alla gara compiono un tragitto di corsa. La palma va a chi arriva primo senza far cadere l’uovo dal cucchiaio. C’è poi “l’ovo cruo ‘n tel linzòl”, gioco a squadre con due persone che tengono un lenzuolo in grado di intercettare l’uovo crudo lanciato da lontano.
Altra sfida, “l’ovo sul mus del morós”, fidanzati vis à vis con un uovo tenuto fra le due fronti. Una variante: nella cesta delle uova sode viene messo un uovo fresco. La fanciulla che lo pesca lo rompe poi sulla fronte del fidanzato. Pare che tale frittata sia benaugurante per gli sponsali in programma.In taluni locali pubblici, durante il tempo pasquale, si vendono ancor oggi uova sode che sono sbucciate e consumate al banco, spesso toncàde, intinte in un piattino con sale e pepe.
A Pasqua, talvolta, nevicava. In Val di Cembra andava per la maggiore uno scioglilingua. Diceva: “Son nà ala Nào, ghèra la néo, ho trovà ‘n nio con dentro en öo”. In dialetto di Trento suonava così: “Son nà ala Naf, ghèra la néf, ho trovà en nif con dentro ‘n of”. In altre parole: sono andato a Nave S. Rocco, c’era la neve, ho trovato un nido con dentro un uovo.
Il lunedì di Pasquetta, a Mattarello e a Pissavacca, nel XVII secolo modificato in Belvedere di Ravina, perché giudicato “indecoroso”, per ordine del vescovo Alberti Poja (1677-1689), resiste la tradizione di consumare uova sode con denti de càgn (cicoria di campo). In altri paesi si propone la “festa dei ovi”.
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