“L’Italia sminuzza i crauti” titola il giornale francese “Libération” nell’edizione di sabato 20 novembre e dedica due pagine al piatto invernale che arriva in tavola in tutta l’area alpina, retaggio della dominazione tedesca. Presente in tutta la cucina povera, dal centro Europa ai Balcani. Ma per parlarne, “Libération” manda un giornalista (da Parigi) e un fotografo (da Venezia) in Val di Cembra (dove i francesi hanno scorrazzato alla fine del XVIII secolo) in casa di Danilo e Daniela Petri, a Segonzano.
Tutto è nato per caso (anche se nulla è legato al caso). Un giornalista trentino (Luca Endrizzi) da dieci anni free lance a Parigi, dove vive, ha contattato Nereo Pederzolli (giornalista ex Rai, appassionato di cucina, “fine conoscitore della gastronomia del Trentino” lo definisce “Libération”) chiedendo lumi sulla polenta e crauti, un piatto povero, tipico dell’area tedesca, ma non solo, diventato “tradizionale” da secoli anche nelle valli trentine. Una pietanza acida che il quotidiano francese “Libération” voleva proporre ai suoi 140 mila lettori dal palato fino. Col passaparola è stato facile arrivare in val di Cembra, valle che, come dovrebbero sapere anche i francesi che l’hanno messa a ferro e fuoco alla fine del XVIII secolo, ha una cucina da terra avara. Ma dove non manca mai il ben noto “piat de bòna céra”. In casa di Daniela e Danilo Petri, poi, neanche dirlo.
I crauti con polenta, quindi. Se in val di Gresta, negli anni Settanta del secolo scorso, lo slogan era “dal campo alla dispensa”, nel nostro caso va modificato in “dal campo alla cucina”. Pressoché “a metri zero”, con gli ingredienti base cresciuti due passi sopra casa, nei campi terrazzati, sul versante sud del Doss Venticcia.
Spiega Luca Endrizzi, il giornalista italo-fancese ai lettori di “Liberation” di sabato 20 novembre 2021: “La gastronomia italiana non usa quali ingredienti principali i cavoli fermentati o il mais. Ma si tratta comunque di un piatto tipico di una provincia italiana, il Trentino, il cui capoluogo, Trento, è meglio conosciuto all’estero per aver ospitato tra il 1545 e il 1563 il celebre concilio convocato per contrastare la riforma luterana. Una delle caratteristiche del Trentino è senza dubbio quella di trovarsi su una linea di demarcazione tra mondo latino e mondo germanico, costituita dalla presenza delle Alpi. Una frontiera fisica ma anche culturale. In questo senso la polenta e i crauti costituiscono la proiezione di codesta situazione geografica”.
“Il mais – spiega a Luca Endrizzi, inviato da Parigi, Stefania Dallatorre, ricercatrice del museo etnografico di San Michele all’Adige – è arrivato nella nostra provincia dalla regione di Venezia nel corso del XVII secolo. Ci sono documenti che attestano la sua presenza sul mercato. Così come è certo che è stato coltivato nelle valli dalla prima metà del XVIII secolo. […] Il mais, sotto forma di polenta, a partire dal 1750 diventa la base dell’alimentazione della popolazione. Si versa la farina nell’acqua bollente e si continua a mescolare fino ad ottenere una buona consistenza, niente di più facile. Al momento della raccolta, si usava interamente la pianta del mais. Con le foglie si imbottivano materassi e cuscini, si fabbricavano poi i ripiani delle seggiole. La pannocchia, una volta sgranata, era utilizzata come materiale da costruzione delle abitazioni e pure si facevano tappi per le bottiglie. Infine, lo stelo era utilizzato per la lettiera degli animali da stalla”.
Il giornale francese “Liberation” racconta ai propri lettori che la polenta si cucinava già al tempo dei romani. Con le granaglie disponibili, naturalmente, poiché il mais fu introdotto in Europa dopo la scoperta (o la conquista, dipende dai punti di vista) delle Americhe da parte degli europei.
Quanto al cavolo cappuccio, scrive il giornale parigino, è presente ben prima della coltivazione dei mais in Trentino. Almeno dai tempi del concilio di Trento (1545-1563). I cavoli fermentati sono chiamati “crauti” perché il termine deriva dal tedesco “sauerkraut”, letteralmente “erba acida”. Nel Trentino povero, dal XVIII alla prima metà del XX secolo la polenta di mais era portata in tavola tre volte al giorno. Spesso senza companatico e senza verdure. Ci avessero accompagnato i crauti si sarebbe evitata l’endemia di pellagra che colpì a lungo i contadini delle valli: da Terragnolo a Cavedine, alla val di Cembra. Oggi i crauti si accompagnano con le salsicce e le puntine di maiale. Rivolto ai lettori francesi, il reportage di “Liberation” non poteva che finire in gloria. Con il “consiglio del gastronomo locale, Nereo Pederzolli, il quale suggerisce di accompagnare la polenta e crauti con un bicchiere di bollicine”. Champagne, ça va sans dire.