Una città che fa memoria per un “paese” che non c’è più. Trecento persone nella notte di metà settembre, fra le tombe del cimitero monumentale di Trento. Chiamate a testimoniare che la pandemia che si è portata via 1.345 uomini e donne, un intero “paese” di questa terra fra i monti, non è riuscita a seppellire il cordoglio. A rivestire dal basso di affetto e rimpianto le aride cifre degli scomparsi e dei dispersi sciorinate per mesi dall’alto, come estrazioni del lotto, dentro le dirette televisive delle conferenze stampa.
“Eravamo una terra di povera gente, di emigrazione e di indigenza, ma almeno ricca di umanità. Siamo precipitati nell’opulenza e nella solitudine dell’aridità”, fa dire all’attore del club Armonia che ne interpreta il brano, Renzo Fracalossi, nel suo scritto dal titolo “Numeri”.
Numeri che si sono riappropriati, almeno per un attimo, di volti e di storie, di affetti e di lacrime, nella notte del 17 settembre 2021. Un venerdì di passione come quello del 27 marzo 2020, in una piazza San Pietro, a Roma, solcata a piccoli passi da un uomo vestito di bianco, solo, davanti alla storia, a invocare la tregua al Dio dei credenti, la fine di un incubo. Una settimana prima (l’ha rievocata l’avvocato Paolo Frizzi, presidente degli alpini in congedo del Trentino) l’angoscia s’era fatta terrore con le immagini di quei settanta camion militari, incolonnati, carichi di bare che lasciavano il cimitero di Bergamo per essere incenerite nei forni crematori dell’Emilia Romagna.
“Qui ogni tomba è la custodia di una vita che si è fatta regalo per gli altri. Credenti e non hanno compiuto l’opera più grande, quella di prendere la vita e metterla a disposizione degli altri. Da queste tombe – ha dichiarato a conclusione della serata l’arcivescovo Tisi – sale una provocazione per quest’ora della storia, difficile e drammatica: impediamo all’odio di prendere il sopravvento”.
Il cenotafio collettivo, ideato non dalle istituzioni (peraltro presenti con il sindaco di Trento, Ianeselli, e con il presidente della Provincia autonoma, Fugatti), progettato da un gruppo di artisti di teatro e della musica, si è levato alto e solenne. Ad accogliere in un abbraccio struggente le note della “Funeral music for Queen Mary” di H. Purcell, proposte dal gruppo degli Ottoni del conservatorio di Bolzano.
“Io son la morte che porto corona/ sonte signora de ognia persona/ et cossì son fiera, forte e dura/ che trapasso le porte et ultra le mura/ et son quela che fa tremar el mondo/ revolgendo mia falze a tondo a tondo”.
Sara Ghirardi, del club Armonia, come una “mater dolorosa”, scandisce le didascalie che fanno da “corona” alle danze macabre delle cappelle cimiteriali di Clusone e di Pinzolo. Il “Requiem” di G. Puccini, del coro Filarmonico Trentino, diretto da Sandro Filippi, taglia la notte come una lama affilata. Il poeta Fabrizio da Trieste recita un brano dal Laudario di Cortona, un codice musicale della seconda metà del XIII secolo.
È la volta del coro della SAT, del maestro Mauro Pedrotti, di introdurre con “Deep River”, un Negro Spiritual, il canto funebre degli indiani Navajos (recita di Cristina Guido). “Amore mio, se muoio e tu non muori”, di Pablo Neruda, rivive nel fraseggio roco e pacato di Fabrizio da Trieste. E tornano le melodie di “Ruth Wohl”, di Marina Giovannini, per coro misto a cappella con il Filarmonico Trentino.
Fiorenzo Pojer dà voce al “Canto del popolo ebraico massacrato” di Y. Katznelson.
E poi “La sposa morta”, testo armonizzato da A. Pedrotti nell’interpretazione del coro della SAT. Al “Cantico dei Cantici”, tratto dalla Torah (recitato da Cristina Guido) segue la lettura dei “Numeri” di Renzo Fracalossi.
La serata si avvia alla conclusione con il possente “Dies Ireae”, composizione poetica medievale per coro maschile e violoncelli elaborata da Marina Giovannini per il coro Vox Cordis di Fornace del maestro Mauro Cristelli.
Il “Cantico delle creature” di Francesco d’Assisi, il più antico testo poetico della letteratura italiana, si alza come lode “per nostra sora morte corporale/ dalla quale nessun uomo vivente può scampare”. E con un colpo di teatro, Fracalossi chiama attorno a sé gli attori del club Armonia, vestiti da monaci benedettini, per la recita del “Requiem aeternam”. Invocazione al Dio dei credenti, riflessione per gli indifferenti. Orazione senza tempo, oltre la soglia del tempo.
Qualche mese fa abbiamo pubblicato una riflessione di Renzo Fracalossi che ha dato il là all’organizzazione della serata “in memoria” proposta venerdì 17 settembre. La riproponiamo per la densità e la valenza dei contenuti.
Numeri senza memoria
Numeri. A questo ci stiamo abituando. A sommare numeri, computando l’invadenza tragica di una morte collettiva che sta potando l’albero della vita, sradicando intere generazioni dal terreno della quotidianità di questa terra come del mondo intero.
Più di millequattrocento esistenze, con i loro racconti, le loro esperienze ed il loro contributo essenziale al nostro esistere, ridotte a numeri su anonime tabelle che, a ritroso, ci ricordano altri numeri. Quelli dei “senza nome” di oggi inghiottiti dai flutti indifferenti di quel “mare nostrum”, dove galleggiano solo le nostre ansie e le nostre paure; quelli dei milioni di dissolti nel fumo grasso dei cieli polacchi ottant’anni fa; quelli diventati polvere nel deserto armeno e quelli che, in ogni tempo, sono scomparsi nei roghi dell’intolleranza, delle violenze, della sopraffazione e nella diffusione dell’ignoranza che ha divorato più vite di qualsiasi morbo.
Numeri. Solo numeri, a dire di quanto si inaridisce l’animo umano nelle pestilenze degli egoismi e di quanto sia in scadenza la data di consumo della vita. Millequattrocento esseri viventi sono un intero paese delle nostre valli. Un paese evaporato nell’arco di un anno. Un’assenza che deve ferirci, perché è inflitta nella carne di questa strana terra, ieri povera, solidale ed umana ed oggi opulenta, fredda ed egoista. Solo il ricordo da senso alla narrazione indispensabile, perché senza memoria di chi ci ha preceduto non c’è futuro per chi ci seguirà; perché rammentare è sopravvivere dignitosamente e perché solo una collettiva elaborazione del lutto può rendere meno disumana la ripresa del cammino.
I numeri a questo non servono. Non importa se ne sono morti dieci o cento o mille. Ciò che conta è ogni singola morte, perché ci impoverisce tutti.
I numeri sono importanti invece per la scienza e per le sue statistiche, anche se non nutrono l’anima; non allacciano le nostre vite a quelle chiuse negli anonimi sacchi funebri e non ci indicano le strade percorse che conducono a quelle ancora da percorrere. I numeri parlano solo dei fatti occorsi, senza disegnare orizzonti nuovi.
Dobbiamo allora rammendare le nostre sbrindellate coscienze, attraverso una sorta di rito comune entro il quale dare sostanza al ricordo di quei millequattrocento che solo ieri ci sorridevano e ci parlavano dalla complessità dei loro molti anni. Dobbiamo rattoppare le nostre lise intelligenze, smettendo di credere che tutto si risolve nell’urgenza vuota di qualche aperitivo in più. Dobbiamo ricucire infine il tessuto consunto di questa comunità, che non pare più capace di trovare rotte nuove da seguire ed ha dimenticato i vecchi sentieri che portano al confine del tempo. Dobbiamo…, ma a volte, il più delle volte, non facciamo.
Ma questa volta rimanere immobili non è irresponsabile, è colpevole.
Le anime, come le memorie, sono impalpabili quanto indispensabili. Evocarle non è un atto dovuto all’effimero bisogno di sgravarci la coscienza, quanto piuttosto un atto di pietà universale ed un alimento essenziale per evitare di trasformare anche noi stessi in numeri.
L’Europa è costellata di cimiteri. Sono i luoghi dove si consuma la storia e dove si raccolgono le identità perdute. E’ nei cimiteri, siano essi quelli delle tradizioni religiose come quelli degli orrori umani diventati cenere, che il racconto può e deve riprendere il proprio filo di senso ed è nei cimiteri che va celebrata le memoria delle generazioni andate, consci che quei luoghi, custodendo il ricordo di chi è stato, offrono speranza a chi è e a chi sarà.Attorno ai grandi appuntamenti della vita, come la nascita e la morte l’Occidente ha sempre costruito una narrazione che nemmeno il maledetto Covid può far venire meno ed è a quel racconto che dobbiamo rifarci per ricominciare a vivere. Ben oltre e ben al di là dei numeri.