Val di Cembra – Le “fiamme gialle” si sono presentate in borghese giovedì mattina, 9 settembre, tra i campi terrazzati della val di Cembra. Primo giorno di vendemmia delle uve del Müller Thurgau, con i contadini intenti alla raccolta. Aiutati da familiari e amici perché la terra è avara e il cielo ancora di più. Se, malauguratamente, piove se ne va un anno di fatiche. Che già il tempo, quello meteorologico, è stato sufficientemente inclemente tra luglio e agosto: pioggia a catinelle prima, grandine come noci poi.
La pattuglia in borghese, tre uomini della Guardia di Finanza, è arrivata con una “pandina vecchia, come per sorprenderci sul fatto”, hanno dichiarato alcuni contadini. Poco dopo si è levato in volo un drone che ha ripreso, dall’alto, i campi e la valle, i vignaioli e i loro aiutanti. “Forse pensavano che noi avessimo manodopera fuori regola, chissà”.
La visita inattesa ha suscitato preoccupazione e, non sembri strano, perfino allarme fra i contadini i quali, alcuni almeno, hanno telefonato al commissario straordinario della Comunità di Valle, il geom. Simone Santuari. E sono riaffiorate immagini e ricordi di molto tempo fa. Quando i “finanzieri” erano di casa in val di Cembra perché chiamati dagli “spioni”, dalle “soffiate” volte a reprimere il contrabbando di grappa. Quando il distillato clandestino era una piccola scialuppa nel mare dell’indigenza. E allora recuperiamo dall’archivio personale le testimonianze di allora (“Fiamme gialle e borsa nera”, in “I figli della terra”, Curcu&Genovese, 2004).
Ci fu un tempo in cui la Val di Cembra richiamava la grappa di contrabbando (de sforàuz) e viceversa. Ci fu un tempo, in Val di Cembra, con la miseria sovrana come le lacrime. Ci fu un tempo in cui le vigne non valevano nulla ed il vino ancor di meno. Perché non c’era mercato, mancavano le cantine sociali e non c’era possibilità di commercio. Ci fu un tempo, in Val di Cembra, che il verbo lambicàr indicava una vita di stenti e, contestualmente, la distillazione delle vinacce.
Per molto tempo, in Val di Cembra si distillò il vino eccedente l’autoconsumo e soltanto in un secondo tempo divenne preminente l’uso delle vinacce. Nell’uno e nell’altro caso, dopo la Grande guerra e il passaggio del Trentino all’Italia, in Val di Cembra divenne fiorente il contrabbando. Non fu la sola zona, in verità, a conoscere l’epica lotta tra “guardie e ladri”, tra uomini dello Stato e vittime della miseria. Fu un fenomeno comune a tutte le vallate laterali all’asta dell’Adige – da Terragnolo a Padergnone, alla bassa Valle di Non – anche se in Val di Cembra la pratica diventò comunitaria.
Vari elementi concorsero al fiorire di quest’attività: “Dazi diversi, una diversa imposizione fiscale, la scarsità cronica di posti di lavoro, il problema del recupero delle vinacce e, da non trascurare, la richiesta sempre maggiore di acquavite da parte della città” (U. Raffaelli, “Acquavite e grappa”, 1976). Per contro s’intensificarono i controlli della Guardia di Finanza, spesso avvertita con una soffiata. E quando veniva sequestrato l’alambicco (una tragedia familiare) o il contadino era denunciato alla magistratura, scattavano le ritorsioni.
Nei giorni seguenti, soprattutto la notte, qualche bait di campagna prendeva fuoco e in paese correva voce che il tale fosse stato punito “par la spiàda” (per la soffiata). La distillazione della grappa fu necessità e diventò virtù. Erano rare le famiglie contadine senza l’alambicco di rame e chi non se lo poteva proprio permettere aveva in qualche compaesano un indirizzo sicuro al quale trasferire il vino in eccedenza o le vinacce. Ne avrebbe ricevuto in cambio un certo quantitativo di distillato: per uso domestico e “terapeutico”, o per altri utilizzi come quello di “ungere” qualche pubblico funzionario. Più che di corruzione si trattò della modesta propiziazione di un favore. Era acqua de vita che leniva una vita di stenti.
Le brasche (vinacce) costituivano lo scarto della vinificazione, pressappoco il 10-12% del brascà, il mosto misto con le vinacce. Si “lambicava” d’inverno quando erano disponibili le vinacce. Il tempo propizio per la distillazione cadeva, infatti, dopo quaranta-cinquanta giorni dalla fermentazione del mosto. Non si poteva distillare a bagnomaria. L’operazione sarebbe stata oltremodo complessa, oltre che lunga, e si doveva fare in fretta perché il pericolo di controlli era incombente. Per evitare che le vinacce si attaccassero al paiolo, con conseguente sapore di bruciato nel distillato, si ponevano sul fondo alcuni rami d’abete; o di ginepro o altre piante aromatiche.
La caldaia di rame era coperta da un cappello conico dal quale partiva il braciàl, un tubo ricurvo che proseguiva a serpentina. Tra il paiolo di rame e il cappello si spalmava cenere bagnata (si faceva cioè la “cendràda”) per sigillare quell’enorme pentola a pressione ed evitare in tal modo possibili fughe di vapore. La serpentina “passava” attraverso un contenitore d’acqua fredda che, per una legge della fisica, trasformava il vapore in gocce di distillato. Tolta la prima e l’ultima parte (i cosiddetti “acquàci”) restava quello che una fortunata pubblicità televisiva ha definito il “cuore” della grappa. Per capire quali erano gli “acquàci”, ogni tanto si spruzzavano alcune gocce di distillato sul bordo del cappello della “caldéra”. Se a contatto con la fiamma bruciavano, era alcool da conservare. Diversamente, non vi sarebbe stata alcuna fiammella azzurrognola ad indicare una gradazione più che decente. “Acquàci”, appunto.
Fil di ferro e fil di fumo
Spiega un distillatore clandestino che “da un quintale di vinacce, se particolarmente zuccherine, si potevano ricavare una decina di litri di grappa a 45 gradi, più alcuni litri de acquac che a sua volta era nuovamente distillato”.
Spesso, per ingannare la Guardia di Finanza, tra una “còta” e l’altra, nel paiolo di rame erano lasciati a marcire frutta e patate, oppure si cucinava il pasto per il maiale che, nelle case contadine, non mancava mai. Era una garanzia di companatico per l’inverno. C’era chi usava lo stesso paiolo pure per la “liscia”, per il bucato ed era difficile sequestrare uno strumento da… lavanderia.
A proposito di sapone: gli acquirenti di città preferivano grappa robusta, con alta gradazione (anche fino a 54 gradi) e con la “corona”. Questa era una delle caratteristiche che dava agli occhi del consumatore una sorta di garanzia di “bontà”. Si scuoteva la bottiglia con la grappa in controluce e si diceva: “Bòccole grosse” e “la tèn la corona”. In molte case contadine si “fabbricava” il sapone bollendo teste di animale con la cenere. A conclusione della distillazione venivano grattugiate dentro la grappa scaglie di sapone così ricavato. Poi si mescolava e si sbatteva per qualche minuto. La “corona”, a quel punto era assicurata. Ed i consumatori… bevevano anche la truffa. Non fu naturalmente cosa di tutti e dappertutto. Ma anche in questo campo c’era chi si credeva più furbo degli altri.
Per favorire la dispersione degli odori, e per essere lontani dal pericolo (della finanza) si preferiva distillare nei baiti di campagna, anche perché, nelle pause della distillazione, al paiolo si davano funzioni di contenitore di verderame o altre sostanze per i trattamenti antiparassitari. La serpentina e il coperchio – prove incontrovertibili del “reato” – subito dopo l’uso venivano sotterrati. Così pure erano interrati i bottiglioni di grappa, ai quali era annodato un pezzo di filo di ferro. Questo era opportunamente lasciato fuoriuscire dal terreno quale segno, per chi sapeva, che lì sotto giaceva un fiasco “de fil de fer”, come poi fu chiamata comunemente la grappa.
Anche in Sardegna, un distillato simile alla grappa cembrana si fregia ufficialmente del nome di “filu ‘e ferru”. Nelle conversazioni, la grappa era indicata con nomi di fantasia: “Acqua de l’Avìs” (per via del torrente che scorre nel fondovalle e che doveva aver “visto” fior di contrabbandieri), “Acqua de Gresta” (perché un missionario camilliano di quel villaggio, in viaggio verso l’Argentina, aveva detto ai doganieri, stupiti, che quella che portava in valigia era per l’appunto acqua del suo paese. E lo aveva pure scritto sulle bottiglie). Ma anche “Acqua santa”, “patate”, e via di fantasia.
Che si dovesse star attenti alle conversazioni, soprattutto al telefono, lo sapevano bene anche quelli di Faver e Cembra, fatti segno a più riprese delle “attenzioni” dei finanzieri. Costoro si appostavano ai “Raspaiàni”, poco sotto Segonzano, o verso Sevignano. Non c’erano, allora, i binocoli agli infrarossi, tuttavia riuscivano ugualmente ad individuare un fil di fumo fuoriuscire “dai bàiti”, tra i campi che digradano ripidi verso il fondovalle. Quelli di Faver erano considerati dei “sorvegliati speciali” perché “molto spiritosi”, tanto che i ragazzini della sponda sinistra della valle avevano tradotto “G. di F.”, la targa dei mezzi delle Fiamme Gialle, come “Guardie di Faver”. C’era sempre qualche “buon samaritano” pronto a dare una mano… ai finanzieri: per ripicca, per invidia, per molte ragioni poco nobili; raramente per alto senso civico.
Il clero non solo fu solidale con i parrocchiani, ma si fece talvolta parte diligente di far circolare il prodotto. Se l’evasione dell’imposta di fabbricazione sugli alcolici era un reato, per i preti cembrani non fu mai un peccato. Probabilmente, quei preti di campagna avevano capito da tempo che il mondo è una valle di lacrime e che, in Val di Cembra, le sofferenze si potevano alleviare anche “lambicando”. Gli episodi in tal senso non si contano. Si raccontano.
Ci fu un ex parroco di Ville di Giovo il quale, quando scendeva in città, chiamava i confratelli e chiedeva loro se avessero avuto bisogno di alcuni “libri”. Modificava soltanto una “t” con una “b”: libro in luogo di litro. Dall’altro capo del filo l’interlocutore afferrava al volo l’antifona. Non servivano particolari sulla “casa editrice”, che era sempre la stessa. Una volta ricevuti i “libri”, i preti beneficati avrebbero provveduto a farne adeguata “recensione”. E il passaparola avrebbe poi portato nuovi “lettori” a quella rinomata “stamperia”.
Un giorno, verso gli anni Sessanta del XX secolo, dalla bassa Val di Cembra chiamarono urgentemente al telefono il parroco di Valda. “Arriva la visita pastorale”, disse una voce “amica”. Il reverendo, sveglio di mente e svelto di gambe, corse come un forsennato a suonare le campane. Arrivarono dai campi alcuni uomini, poche parole e gesti misurati. In un baleno, diciotto damigiane di grappa dal sottotetto della parrocchiale di S. Paolo passarono a “miglior destinazione” dietro altrettante lapidi del cimitero.
La Jeep dei finanzieri arrivò, alfine, rombante e risalì a fatica l’erta che portava alla chiesa. Ne scesero quattro militari. Si diressero decisi verso il sottotetto e lo ispezionarono con cura. Il parroco, sornione, chiese loro se, per caso, s’intendessero di pratiche antincendio perché, giusto quella mattina, gli era arrivata da Trento la polizza di una compagnia di Assicurazioni.
Non contento si premurò d’offrire loro un “goccetto”. Gradivano un cordiale, o magari, già che c’erano, un grappino della “premiata distilleria tal dei tali”?
Non gradirono e se n’andarono seccati.
Le nozze Cembrane
C’era stata pure una contadina di Verla che, fermata a Lavis dai finanzieri, e richiesta di indicare il contenuto di due bottiglioni, aveva dichiarato – con stupefacente ingenuità – di trasferire a Trento “Aqua de Lurdes”(!) E quando i finanzieri, increduli, avevano annusato il prodotto non avevano potuto fare a meno di esclamare: “Ma questa è grappa, signora”! Al che, l’anziana donna, per nulla spaventata: “Questo sì che è un miracolo”! Già, il miracolo delle “nozze Cembrane”, che ogni sera, per tutto l’inverno e per molte stagioni invernali, faceva rivivere la trasformazione dell’acqua… in grappa.
Si distillava soltanto col calar di luna così come per la raccolta della legna che doveva avvenire con la luna calante. Diversamente avrebbe faticato a seccare. Anche le noci, usate per il nocino (liquore principe, in terra trentina, tra quelli a base di grappa) dovevano essere raccolte con la luna giusta (mai durante il plenilunio) e mai all’imbrunire. Per il fuoco della distillazione era preferita la legna di faggio, talvolta si usava quella di quercia, mai quella di castagno. Quest’ultima, ricca di tannino, sviluppava facilmente il monossido di carbonio e per chi si trovava in un ambiente chiuso (come una distilleria clandestina) la morte era in agguato. Morivano per la “scimia”, storditi dai veleni della fermentazione. Accadde soprattutto quando dovevano entrare nelle botti per ripulire il fondo dalle incrostazioni. Ed era difficile poi prestare soccorso ai malcapitati che si erano infilati a fatica dalla “bocàra”, il pertugio che serviva a togliere dal tino o dalla botte stessa la feccia e le vinacce.
G. P. Zanettin scrisse un poemetto dal titolo “Se vive lambiccando”, per tramandare un episodio realmente accaduto, nel 1938, a Cembra. Quando, richiamati da un delatore, arrivarono i finanzieri. Ci fu la perquisizione di mezzo paese, con le donne “desperade”, e loro, i finanzieri, intenti a “sfodegàr” soprattutto nelle “càneve”, a “snasàr ‘n dei botesini” (ad annusare dentro le botticelle), fin che avevano scoperto alcuni ettolitri di grappa e due alambicchi artigianali. Poi tutto era stato caricato su un camioncino ed era cominciata la caccia allo spione, un autentico “mascalzòn”. Analogo episodio si verificò quindici anni dopo a Lisignago.
Era venerdì 11 dicembre 1953. Le Fiamme Gialle avevano fermato sedici persone del paese, le avevano caricate su un autocarro per trasferirle poco distante, alla Costa di Castagné. Si voleva avere mano libera per una perquisizione dell’intero abitato e, allo stesso tempo, evitare una sommossa popolare. Il giornale L’Adige ebbe la notizia a tarda sera. Il giorno seguente pubblicò poche righe: “Apprendiamo che i militari hanno trovato seria resistenza nel portare a termine il loro compito, ad opera di un gruppo di contadini”. L’Alto Adige, registrò “un tentativo messo in atto dalla popolazione per ostacolare l’opera dei finanzieri giunti di rinforzo”.
La sommossa di Lisignago
La cronaca dettagliata dell’affaire fu pubblicata su L’Adige, nell’edizione del 15 dicembre 1953: “Venerdì notte Lisignago, in Val di Cembra, è stato teatro di una movimentata scena di repressione di contrabbando conclusasi con due fermi. Protagonista un drappello di cinque guardie di finanza che nel pomeriggio di quel giorno era sceso nelle campagne sottostanti il paese, sorprendendo in località «Gagh» e in località «Barch» due alambicchi, sembra in funzione. L’arrivo delle jeep con i militari non era sfuggito alla gente che si era radunata sul breve piazzale antistante la chiesa, in attesa dei finanzieri con il “bottino”. Essi giunsero infatti sul calar della notte recando a spalla una bigoncia contenente circa 25 litri di grappa, accolti da un mormorio di ostilità. Pare anzi vi sia stata una certa aggressività da parte dei presenti, davanti al deciso intervento dei militari. Essi caricarono la merce sequestrata sulla camionetta e puntarono verso Trento. Un’ora dopo circa, giunse a Lisignago su un camion un plotone di guardie: mentre una parte di esse scendeva nelle campagne per ultimare l’operazione, l’altra operava uno sbarramento forse per impedire che si verificasse qualche opposizione. Fino a notte inoltrata, è stato infatti vietato il transito delle persone in talune zone, mentre un gruppo di uomini è stato fatto salire sul camion. La gente afferma essere stati esplosi alcuni colpi di arma da fuoco: quattro persone (Guglielmo Callegari, Urbano Callegari, Remo Lona e Luigi Callegari) avrebbero riportato delle contusioni di lieve entità. Guglielmo Callegari era uscito dalla stalla dove una mucca stava partorendo, in cerca di aiuto, ma giunto sulla strada si vedeva invitato dai militari a prendere posto sul camion. Vane furono le proteste del contadino il quale, in una breve colluttazione — aveva egli tentato di resistere? — avrebbe riportato una contusione alla regione frontale. Il vitellino, nato senza assistenza, è deceduto e sembra che anche la mucca sia in pericolo di vita. A sua volta il giovane Remo Lona, afferrato — così egli afferma — piuttosto rudemente al braccio destro da anni paralizzato, avrebbe riportato delle lesioni attualmente in osservazione del medico condotto di Cembra. Le persone per precauzione custodite sull’autocarro (Giovanni Ferretti, Vittorio Donati e suo figlio Giulio, Donato Fontana, Carlo Dallaporta, Giuseppe Callegari, Tarcisio Lona, Giuseppe Pergol, Eugenio Rosa, Carmelo Ferretti, Giovanni Dallaporta, Elio Zendron, oltre ai quattro sunnominati) furono lasciate libere verso le una, quando un paio di damigiane, caldaie e serpentine dei due alambicchi scoperti furono a loro volta sistemate sull’automezzo. L’operazione si è conclusa ieri (dopo tre giorni) con il fermo dei presunti responsabili del contrabbando, Carmelo Dallaporta e Fortunato Callegari i quali, accompagnati dal sindaco del luogo, sono stati tradotti a Trento, dopo un primo interrogatorio a Cembra. Se ci è lecita una osservazione vorremmo dire che per due alambicchi si è fatto forse troppo rumore, mettendo in subbuglio un intero paese”.
La mucca “in pericolo di vita” morì due giorni dopo. “La ghe l’ha ‘ngiontàda anca la vaca”, raccontò la Vittoria una sera di gennaio del 2004, rievocando quei fatti di mezzo secolo prima. Ma non fu l’unica “vittima” di quella contrastata caccia ai contrabbandieri. Il Carletto Dalla Porta, che era il figlio della “comàre”, la levatrice del paese, fu processato per “oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale”. Perché “vistosi trattato da delinquente” aveva detto a voce alta che la guerra coi nazisti era finita già da tempo. Secondo la Vittoria fra l’uomo ed uno dei militi della finanza c’era della ruggine fin dagli anni Quaranta. Fatto si è che Carlo Dalla Porta fu portato in Tribunale. “I gà magnà för tut, e dal dispiazér gh’è vegnù ‘na paralisi ala lengua e no l’ha pù parlà ben”.
Vittoria Zendron lo raccontò come fosse stato ieri e nella cucina di casa, a Lisignago, passò in rassegna “quei tempi tremendi”. Lei aveva 15 anni, suo fratello Elio (“che ‘l cöseva för come tuti”, che distillava come tutti, in paese) era stato fermato e poi rilasciato. Ma in famiglia la medaglia del contrabbandiere, se mai ne fosse stata coniata una, spettava di diritto alla zia Frenzi (1909-1982), che era nata in Pennsylvania (Stati Uniti), come la mamma e un’altra zia. Era arrivata a Lisignago nel 1911, portatavi dai genitori (Maria Petri, da Segonzano, e Simone Ferretti). E qui era rimasta, anche quando papà Simone era ripartito (1913) per la Pennsylvania dove poi morì di “spagnöla” (1918).
La “zia Frenzi”, dunque “faceva la contrabbandiera. Portava decine di litri di grappa a Trento e Cavalese, ma soprattutto a Trento. L’ho aiutata spesso a portare quelle valigie pesanti” ammise la Vittoria. In verità la nipote portava una valigia con dentro patate o legna; la zia una borsa con la grappa. Quando i finanzieri fermavano la nipote con la valigia sospetta – e per aprirla servivano ripetuti inviti ed anche qualche minaccia – la zia aveva tutto il tempo per sgattaiolare e liberarsi dell’ingombrante fardello.
Zia e nipote scendevano a Trento con la “corriera” e c’erano alcune “poste” ormai definite: un bar in piazza Lodron, un altro all’angolo tra via S. Vigilio e via Calepina, alcune case signorili. Fu giusto dietro il Duomo che la “zia Frenzi” fu fermata, un giorno del 1956, da un finanziere in borghese, “uno col trènc ciàr (impermeabile chiaro), che se vedeva lontàn en chilometro che l’era uno dei quei” (che si vedeva da lontano che era un finanziere). L’uomo chiese di controllare il contenuto del borsone, la Frenzi disse che non era il caso. Vi furono strattoni, la borsa restò nelle mani del finanziere in borghese, le maniglie in quelle della donna che cominciò ad urlare “al ladro, al ladro”. Dal bar uscirono alcuni avventori, dal negozio di stoffe del Bertoldi un paio di energumeni. La donna continuava ad urlare, gridava che le erano sparite 600 mila lire dalla borsa, soldi che le servivano quale caparra per comperare un appartamento in città. (Lo acquistò davvero, nel rione di Cristo Re).
Per farla breve: il povero finanziere in borghese rimediò un sacco di legnate e la “zia Frenzi” fu chiamata in Tribunale per via di quei soldi che “erano spariti” e che né il Tribunale né altri riuscirono a far ricomparire. L’unica scomparsa certa, quel giorno, fu la grappa. Che sparì con la borsa intanto che il malcapitato le prendeva senza colpa.
La grappa nella cassa (da morto)
Se è vero che l’alcool solleva lo spirito (affranto), a Lisignago sfruttarono persino un trasporto funebre per inviare l’acquavite a Cavalese. Allora non c’erano le pompe funebri. Se uno moriva all’ospedale si doveva mandare la cassa fabbricata dal falegname del paese. Nel 1957, in Val di Fiemme morì un tale di Lisignago.
D’accordo, il lutto e la mestizia, ma perché mandare “’n ent” (verso l’alta valle) la bara a vuoto? si chiesero l’un l’altro i nipoti del morto. Fu così che l’indomani, la corriera di linea dell’Atesina – la Trento-Cavalese, via Cembra – caricò a Lisignago una pesante cassa di larice. Destinazione la Val di Fiemme dove sarebbe servita per riportare a casa lo scomparso, giusto per il funerale. Sulla corriera salirono due familiari con la fascia nera del lutto al braccio, “per ‘nar a tör el mort” ed anche, ma questo lo si seppe ad esequie avvenute, per accompagnare l’ultimo viaggio di cinquanta litri di distillato.
Ma perché tanto traffico di grappa e tanti rischi? chiedemmo alla Vittoria. “Perché c’era miseria”, rispose. “E perché diversamente si sarebbe dovuto buttar via il vino che non lo comperava nessuno. E poi la grappa valeva 250 lire al litro (nel 1952) e se uno aiutava a distillarla e lavorava tutta una notte, al mattino riceveva in cambio l’equivalente di due litri (500 lire)”.
Con la grappa si pagava “’l libret dela bottega” (la spesa alla Famiglia Cooperativa), si cresceva la famiglia; insomma “se lambicàva de not per no lambicàr massa de dì”. Capito? Si distillava la notte per stare meno peggio di giorno. E la “zia Frenzi”?
“La zia Frenzi col contrabbando l’ha arlevà otto fiöi. Chiaro, no?”. Chiaro si.
Gravidanze “spiritose”
Si racconta che le donne della Val di Cembra avessero la propensione a restare “incinte” soprattutto tra l’inverno e la primavera. Ovvero: quando la grappa doveva essere trasferita sull’asta dell’Adige, in casa di coloro che s’erano raccomandati, fin dall’anno precedente, per un rifornimento di quella buona, non appena pronta.
E per non dare nell’occhio, le donne uscivano di casa con un pancione da parto plurigemellare. In realtà erano provviste di una “pancera” ricavata dal budello del maiale (sempre lui, tanto vituperato in vita quanto utile e sfruttato da morto), o di una camera d’aria opportunamente riempite e fissate ai fianchi. Più che gravidanze isteriche erano gravidanze “spiritose”. Quell’andirivieni di gestanti diventò ingombrante al punto da destare sospetti fondati. E allora si fece ricorso alla classica valigia, provvista peraltro di doppiofondo. Vi si potevano agevolmente trasportare da 15 a 20 litri di grappa.
Quando incontravano la Guardia di Finanza, per le donne erano guai seri. Elena Brugnara, da Mosana di Giovo, finì in carcere all’età di… sei mesi. Sua mamma, Valeria Sebastiani (1902-1991) da Palù di Giovo, nell’estate del 1938 si trovò incinta e con il marito appena partito per la Germania. Non c’era denaro, a casa aveva già tre bambini da sfamare ed era in attesa del quarto figlio. Per guadagnare qualche soldo si mise anche lei, come molte compaesane, a portare in città qualche litro di grappa.
“Nascondeva la grappa in due ciùtare (borracce fatta con una zucca vuotata dei semi e seccata). Ne metteva una per parte, legate con uno spago e le fissava ai fianchi. Quindi scendeva a Trento. Mi pare – ricorda la figlia – avesse raccontato che le doveva portare al capo della Finanza. Sia come sia, a Lavis fu fermata dai finanzieri. Visto che era incinta per davvero, le dissero che avrebbe dovuto pagare una multa o finire in galera per qualche giorno”. Pregò i “gendarmi” di lasciarla tornare a casa perché aveva altri tre piccoli da accudire. Acconsentirono.
Passarono alcuni mesi, la vicenda pareva risolta con una ramanzina quando, nel marzo del 1939, si presentò a Mosana il messo del Tribunale penale. Valeria Sebastiani avrebbe dovuto pagare la multa o finire in prigione. La povera donna, non avendo denaro, fu costretta a presentarsi ai finanzieri a Lavis, non prima di aver portato i tre piccoli da sua mamma, a Palù. La quarta, Elena, neonata di sei mesi, la portò con sé oltre il portone di ferro del carcere di via Pilati a Trento. Doveva scontare due giorni e una notte di galera. “Mi raccontò – ricorda con tenerezza la figlia – che fui coccolata da tutte le detenute, e che per due giorni mi diedero latte a volontà”.
Grappa da corsa
In quegli anni, anni di fame, tra il 1930 e il 1938, una buona piazza per la grappa cembrana furono i villaggi e le borgate nella bassa Atesina, da Egna a Salorno, l’altopiano di Piné e i paesi della bassa Valle di Fiemme. Qui, il trasporto del distillato avveniva con le “baghe”, contenitori di pelle di capra, che i giovanotti portavano di traverso, sulla schiena, come un sacco da montagna. Erano pur sempre tra i 30 ed i 40 litri di distillato. Da Gresta di Segonzano attraversavano l’Avisio,appesi ad una fune, pedinati talvolta dai “gendarmi”. Nel 1938, una giovane guardia, zelante come sanno esserlo i giovani, inseguì un “commerciante” e finì in una “möja”, un’ansa piuttosto profonda dell’Avisio. “Morì per polmonite fulminante, nonostante i soccorsi e le cure più premurose”.
Un “contrabbandiere” da prima pagina – lo si può ben dire perché non è più cronaca ma storia – fu Aldo Moser, capostipite della dinastia del ciclismo. Il “bocia” di Palù di Giovo pagò la sua prima bicicletta da corsa (1951) in natura. Con la scusa degli allenamenti, scendeva in città, filava diritto da Ermanno Moser, che aveva la bottega in via Calepina, e “versava” la sua rata giornaliera contenuta in un’insospettabile borraccia. Riempita di grappa, naturalmente. “E dunque si può ben dire che il ciclismo italiano ha contratto un debito di riconoscenza con l’acquavite cembrana”.
Da Segonzano a Bassano (del Grappa)
Nel 1879-80, in Trentino erano in funzione 761 caldaie per la distillazione delle vinacce; 35 distillavano radici di genziana, 8 bacche (di ginepro), 6 frutta a granello, 3 frutta a nocciolo, 2 feccia di vino e 2 acqua di miele. Al principio del XX secolo a Segonzano, che aveva una popolazione di 1.620 persone, si producevano 1.600 ettolitri di graspato e circa 70 ettolitri di acquavite. Due secoli prima (1779), proprio da Luch di Segonzano era emigrato a Bassano (del Grappa) Bortolo Nardin. Assieme ad altri due fratelli intendeva raggiungere Venezia ma, prima di attraversare il ponte sul Brenta, reputò che quella zona fosse propizia alla distillazione e si fermò. Nacque così una delle più rinomate distillerie industriali italiane. Oggi la “grappa Nardini” è prodotta in quattro milioni di litri l’anno ed è esportata in tutto il mondo, Cina compresa. E pensare che tutto cominciò in un villaggio chiamato Luch, all’ombra delle piramidi. Poche anime e molto… spirito. Non solo d’avventura.
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