Il Trentino e non soltanto quello dello sport, è in festa per la medaglia olimpica conquistata in Giappone da Ruggero Tita (vela, classe Nacra 17, un catamarano “volante) la cui famiglia vive a Santa Agnese di Civezzano. Si fa festa anche a Cavareno, in val di Non, per il settimo posto di Nadia Battocletti nei 5.000 metri e per l’ottavo posto di Letizia Paternoster nella Madison femminile di ciclismo su pista. Ma non sono gli unici trentini ad aver “conquistato” il Giappone. Già Martino Martini, il gesuita e geografo “cinese”, nato a Trento nel 1614 e morto a Hangzhou in Cina nel 1661, visitò il Giappone con le isole, da lui descritte, nel “Novus Atlas Sinensis”. Nel secolo scorso, Mario Antolini “Musòn” (101 anni compiuti il 17 giugno 2021) da Tione, visse sette anni fra Tokio e Nagasaki (quando il 9 agosto 1945 scoppiò la seconda bomba atomica, si trovava a settanta chilometri dalla città).
Nella seconda metà del XIX secolo, le isole del Sol Levante furono la meta plurima dei viaggi di un piccolo prete di montagna, Giuseppe Grazioli (1808-1891) da Lavis. La sua vicenda merita di essere rammentata perché salvò la bachicoltura trentina dalla catastrofe.
La prima metà dell’Ottocento aveva visto la diffusione nelle campagne trentine della coltivazione del gelso (“moràr”) conseguente all’allevamento dei bachi da seta. Contestualmente vi fu l’apertura delle filande. Un’occasione di lavoro e di sussistenza per molte famiglie. A metà del secolo la situazione parve peggiorare. Accadde nell’estate del 1855, già falcidiata da una morìa straordinaria di uomini e donne, falciati dal colèra (6.210 vittime in meno di tre mesi in Trentino).
La bachicoltura quell’anno perse il 50% della produzione a causa di una malattia, la pebrina, che decimava gli allevamenti dei bachi da seta. Per far fronte alla crisi, nel 1858, a Trento, fu fondato il Comitato Bacologico i cui responsabili incaricarono don Grazioli di mettersi in viaggio alla ricerca di seme-bachi immune dall’infezione. Dopo una prima trasferta in Dalmazia, rivelatasi inutile perché la malattia del baco da seta si era diffusa anche da quelle parti, l’anno seguente il prete di Lavis raggiunse Bucarest, in Romania. Il seme-bachi portato in Trentino non si dimostrò del tutto resistente alla pebrina. Pertanto, don Grazioli fu incaricato di allargare le sue ricerche anche perché, nel frattempo, l’infezione era dilagata in tutto il vicino Oriente.
Avuta notizia dalla Lombardia (dal 1859 annessa al regno d’Italia) che il seme importato dal Giappone aveva dato una buona resa, il Comitato bacologico trentino si rivolse nuovamente a don Grazioli, il quale fin dal 1842 aveva la cura d’anime di Ivano-Fracena, in Valsugana. Incaricato (1864) di raggiungere le isole del Sol Levante, il prete raggiunse Yokohama dove comperò diecimila confezioni di seme-bachi. Altre trasferte in Giappone seguirono negli anni 1865, 1866, 1867, 1868.
Furono trasferte che duravano da quattro a sei mesi, con soste a Suez, Ceylon, Singapore, Hong Kong, Shangai per raggiungere, infine, Yokohama vicino a Tokio.
Per la quarta spedizione (fra aprile e dicembre del 1867) fu scelto un itinerario da est verso ovest, poiché don Grazioli intendeva visitare l’esposizione universale di Parigi. Da qui si trasferì a Londra e si imbarcò a Liverpool per New York. Dopo soste a Panama e San Francisco approdò in Giappone. L’anno seguente, giunto ad Alessandria d’Egitto deviò per Gerusalemme e visitare così la Terrasanta.
Con la riproduzione in Trentino di seme giapponese immune dall’infezione, i viaggi in estremo Oriente non furono più necessari. Esaurita la propria missione e dopo undici viaggi all’estero, il sacerdote lavisano rivolse il proprio impegno altrove. Per esempio nel tentativo, fallito, di aprire una “casa di correzione per discoli” e nella raccolta di fondi per la realizzazione del monumento a Dante che fu alzato davanti alla stazione ferroviaria di Trento nel 1896.
Il Comitato seme-bachi era stato sciolto nel 1875. Dodici anni prima (1863), don Grazioli era stato eletto deputato alla Dieta del Tirolo, ovvero consigliere provinciale, per i distretti di Levico, Borgo e Strigno. Ma non partecipò mai alle sedute dell’assemblea, in aperta polemica con Vienna poiché alla Dieta di Innsbruck i Trentini (cioè gli “austriaci di lingua italiana”) erano sottorappresentati. Su 72 deputati, alla parte italiana della provincia tirolese spettavano soltanto 24 seggi, nel 1861 ridotti a 21.
Fin dal 10 giugno 1848 i deputati eletti nei collegi di Trento, Rovereto, Mezzolombardo, Levico e Cles, avevano disertato l’apertura dei lavori alla Dieta di Innsbruck, per partecipare alla Costituente Germanica di Francoforte, convocata (1848-1849) con l’intento di creare uno Stato unitario tedesco. In quella sede i Trentini avevano chiesto un distacco dei Circoli di Trento e di Rovereto dalla Confederazione germanica pur mantenendo l’unione con l’Impero d’Austria. L’Assemblea di Francoforte bocciò la petizione. I deputati trentini domandarono almeno il riconoscimento di autonomia dal Tirolo tedesco.
Scrivevano: “Il Tirolo italiano ha interessi del tutto suoi propri, possiede una nazionalità che non si lasciò mai opprimere ed è più grande di molti Stati sovrani della Germania […] Molti interessi del Tirolo italiano sono precisamente opposti a quelli del Tirolo tedesco e noi non potremmo mai sperare di vederli giustamente apprezzati in una Dieta comune”.
Fu loro consigliato di rivolgersi al Parlamento austriaco che era come dire a Dracula di farsi togliere i denti. I Trentini si sarebbero accontentati di una robusta autonomia da Innsbruck, come chiedevano fin dal 1803. Ma da Vienna non era arrivata alcuna risposta. Per ben dieci volte in nove anni, tredici deputati trentini, regolarmente eletti alla dieta Tirolese, si erano dimessi per protesta. Il barone Giovanni Battista a Prato, il consigliere d’appello, Leonardi, e l’arciprete di Arco, don Degara, nel 1870 presentarono una memoria al Consiglio dell’Impero per chiedere “che venisse accordato al Trentino quanto veniva garantito dalla Costituzione austriaca a ogni singola nazionalità”: l’autonomia. “La parte italiana della provincia [tirolese] insiste[va] nella sua pretesa di avere una propria Dieta autonoma e propri fondi”.
Intanto, sul Trentino, ormai separato da Lombardia e Veneto, gravato dai dazi doganali con il Regno d’Italia, era piombata la crisi della produzione agricola legata alle fitopatologie (pebrina, filossera, oidio). Di conseguenza, aveva preso il via quel fenomeno migratorio che in pochi anni avrebbe portato all’esodo di decine di migliaia di giovani braccia. Se n’era andato, si calcolò, il 7% della popolazione. In tutta questa crisi, l’opera di don Grazioli servì almeno a frenare la disperazione.
Scrive Daniele Donati, dell’Associazione culturale Lavisana: “Il ruolo di don Grazioli nell’economia del Trentinodi fine Ottocento non si esaurì con l’ultimo viaggio in estremo Oriente, del 1868. La sua indole e l’esperienza accumulata nei suoi viaggi, lo spinsero ad intraprendere le più svariate iniziative per aiutare il mondo trentino, e in particolar modo l’ambiente contadino, a prendere una maggiore consapevolezza della propria forza e delle proprie capacità. A questo scopo egli impiegò non solo i compensi ricevuti per i suoi viaggi, ma anche i notevoli guadagni che realizzò con l’intensa importazione di oggetti esotici. Mentre era ancora in vita promosse la costituzione di una scuola di agricoltura, che fu realizzata nel 1873 e che operò fino al 1882. Tale scuola anticipò di un anno la fondazione dell’Istituto Agrario di San Michele, che, essendo fortemente voluto dal governo di Innsbruck, disponeva di mezzi economici e didattici maggiori rispetto alla scuola di Trento”.
Don Giuseppe Grazioli, ormai cieco, morì a Villa Agnedo il 27 febbraio 1891, nell’abitazione che aveva acquistato nel 1859 dopo aver rinunciato alla cura d’anime nella vicina Ivano-Fracena.
Il 2 giugno 1912 la borgata di Lavis, che aveva dato i natali a don Grazioli, dedicò all’illustre concittadino un monumento di 120 quintali, scolpito a Vienna nel marmo bianco di Lasa dall’artista trentino Stefano Zuech. L’opera costò 10.845 corone. Un busto a don Grazioli fu eseguito nel 1891 dallo scultore Andrea Malfatti per il famedio cittadino di Trento. Cinque anni prima, il pittore Eugenio Prati aveva dipinto il ritratto dal “salvatore della bachicoltura trentina”.
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