Un’inchiesta de “Il Fatto Quotidiano” ha rivelato che sulla riviera romagnola si cercano camerieri. La proposta: 13 ore di lavoro al giorno, sette giorni la settimana, per un controvalore di 800 euro al mese più 400 euro “in nero”. Pare che l’allettante offerta trovi i giovanotti disoccupati piuttosto freddini. “Tutta colpa del reddito di cittadinanza”, tuonano gli imprenditori-prenditori del turismo romagnolo. Difatti, se andate a mangiare una pizza è più facile trovare un cameriere “straniero” che un dispensatore di cibo “domestico”.
Un tempo, d’estate, era un pullulare di studenti che, finita la scuola, partivano per due mesi e mezzo di lavoro (allora le lezioni riprendevano in ottobre): camerieri, lavapiatti, tuttofare negli alberghi della val di Fassa, in Val Rendena, nel Primiero.
Accadde molto tempo fa. Fine giugno del 1968. Lo studente, non proprio modello, aveva finito la quinta ginnasio. Era in crisi adolescenziale. Al bar del paese, dove viveva con la famiglia, aveva letto sul giornale che cercavano apprendisti camerieri sulla piazza di Rimini e pure in un hotel di Santa Cristina in Val Gardena. Al “telefono pubblico” annesso al bar, compose il primo numero sull’elenco. Dall’Hotel Posta di Santa Cristina risposero che lo avrebbero atteso per l’indomani.
Tornato a casa, durante la cena disse che sarebbe andato a lavorare. Suo padre, preveggente e senza alzare gli occhi dal piatto, smorzò l’entusiasmo con un lapidario: “durerà un giorno”. E continuò a mangiare la minestra.
Il giovanotto di belle speranze prese la corriera per Trento, poi il treno fino a Ponte Gardena e di nuovo la corriera. Arrivò all’albergo che era pomeriggio inoltrato.
Il maître di sala lo squadrò, domandò informazioni, precedente esperienza lavorativa (“nessuna”), dati anagrafici. Posata la valigia, il giovanotto fu condotto in cucina e poi in sala da pranzo per un corso accelerato di buone maniere, di buon servizio. Il tovagliolo sul braccio sinistro, i piatti si portano in tavola così, il vino si versa da dietro, le domande e le risposte si fanno sottovoce.
La sera, dopo aver mangiato con gli altri “colleghi”, il neofita fu invitato a seguire con lo sguardo movenze e passi in sala da pranzo. Finita la cena degli ospiti fu sollecitato a dare una mano a pulire per terra, a togliere le tovaglie, a cambiare l’argenteria, a predisporre la “mise en place” per la colazione del mattino seguente.
Sfinito andò a dormire il sonno dei giusti. Sognò fanciulle da sogno, mance adeguate, due mesi di lavoro-vacanza. Alle cinque del mattino la sveglia lo riportò alla realtà.
Assonnato e senza doccia si vestì in fretta, dal sottotetto dov’era sistemato (una bella stanzetta, peraltro) scese in cucina, trangugiò una tazza di latte, ma subito fu mandato in sala a portare caffè, pancetta fritta e uova bollite.
L’alba lasciò spazio al giorno. La mattina passò in un baleno. Poi venne l’ora del pranzo, della “colazione” come dice chi se ne intende ché il pranzo sarebbe quella che noi mortali chiamiamo la cena.
A mezzogiorno, nella sala semideserta, una coppia di turisti stranieri (avrebbe saputo più tardi che si trattava di un industriale tedesco con la sua signora) aveva ordinato due porzioni di Leberknödel, canederli di fegato. Due piatti, semplici da portare in tavola, all’altezza di un neofita come il giovanotto alle prime armi. Così pensò il maître di sala, probabilmente. Lo studente-cameriere di primo pelo si lanciò di gran carriera verso l’augusta coppia. Non s’accorse, il poveretto, che il lungo tappeto rosso che attraversava la sala, aveva una gibbosità impercettibile all’occhio inesperto. Inciampare fu un attimo e far volare in aria i due piatti con canederli e brodo fumante fu un lampo. Il “temporale” si abbatté sulla coppia tedesca e l’uragano sul capo dell’aspirante cameriere. A nulla valsero le reiterate scuse in un tedesco incespicato: “Entschuldigen Sie bitte”.
Il maître, livido e composto al tempo stesso, chiamò il giovanotto. “Non è il suo mestiere” sibilò gelido, dandogli del lei. E gli mise in mano una busta con 3.500 lire.
Auf Wiedersehen. Danke fur alles.
La corriera delle 15 riportò a valle il cameriere per un giorno. Il quale fu accolto a casa non già a braccia aperte ma con il commento gelido del padre: “Ci avrei scommesso che finiva ancor prima di cominciare”.
L’adolescente pieno di dubbi sul proprio futuro si disse che gliela avrebbe fatta vedere a suo padre. Avrebbe finito gli studi e si sarebbe laureato in medicina. E poi sarebbe andato in Africa a salvare vite umane. Finì a fare il giornalista e a raccontare, con qualche rimpianto, le imprese dei medici senza frontiere e dei medici del Cuamm. Che le vite umane le salvano per davvero, loro.
Che cosa c’entra tutto questo con i camerieri che non si trovano perché sottopagati e spremuti come limoni? C’entra, come si capirà tra poco.
Passarono gli anni. Un giorno, alla soglia della pensione, il cronista ormai in disarmo, domandò all’INPS il tabulato dei primi anni di lavoro per ricongiungere i contributi con l’Istituto di previdenza della categoria. Trovò che nell’estate del 1968, accanto al suo nome, figuravano i contributi previdenziali per una settimana di lavoro. Soltanto a quel punto rammentò quella fugace stagione lavorativa. E rivolse un grato pensiero alla proprietà di quell’albergo che lo aveva “messo in regola” nonostante il disastro in sala da pranzo.
Altri tempi, altri imprenditori, altro stile.