Il ventennale della morte di Silvio Franch (22 febbraio 1932-12 giugno 2001), prete cattolico della diocesi di Trento, uomo del dialogo interreligioso ma non soltanto, è ricordato venerdì 11 giugno 2021 a Cloz, suo paese natale. Tra i relatori Alessandro Martinelli che di don Silvio Franch è stato a lungo il principale collaboratore.
Don Silvio Franch è stato un uomo, un prete, originale – Nato a Cloz il 22 febbraio del 1932, dopo un’infanzia esuberante e ricca di avvenimenti curiosi, entra in seminario, ammette, «per fare il nunzio», esibendo fin da subito una vocazione da leader e una spiccata inclinazione verso le relazioni. Originale sin dallo sguardo, dicevano di lui i suoi compagni.
Il seminario diventa tempo di studio, ma anche di sogni, di avventure; l’inizio della maturazione di una scelta precisa: don Silvio diverrà un «originale compagno di viaggio» alla ricerca di un Dio amico, da testimoniare nell’autenticità della relazione umana come avviene tra i cercatori veri.
A vent’anni, all’improvviso, come accadde per tante delle sue scelte, decide di partire per il Libano, affascinato da quell’Oltre di cui aveva sentito parlare. Rientrato da quell’esperienza, ordinato presbitero nel ‘57, è prima vicario parrocchiale ad Avio, poi a Trento in Sant’Antonio e infine a Spormaggiore. Sono anni di autentiche originalità, nelle prassi liturgiche, negli interventi educativi, negli impegni pastorali, caratterizzati da una spontaneità e da una vivacità oltre l’ordinario. Gli anni ’70 lo vedono a Rovereto, dove in quanto a originalità, non scherza.
Rovereto rimarrà nel suo cuore, legata da un profondo rapporto con tanti amici, vissuto tra la realtà pastorale di san Marco e l’insegnamento nelle scuole della città, tra la squadra del Rovereto calcio di cui fu assistente spirituale e quello che diventerà successivamente il centro culturale Clesio Rosmini, tra l’abitazione sempre aperta di via Setaioli e gli incontri a tavola, che gli causeranno non poche incomprensioni.
Un capitolo a parte, in tutto questo, merita poi la Campana dei Caduti.
Il fuoco alla ricerca di relazioni – Il 1972 vede approdare don Silvio a Trento, chiamato dal vescovo Alessandro Maria Gottardi come suo delegato per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso; poco dopo assumerà anche la direzione del centro Bernardo Clesio, e successivamente anche l’incarico per la cultura. Trent’anni di fuoco. Di dinamismo, di calore.
Il fuoco di un impegno forte, appassionato, alla ricerca di relazioni, capace di trasformarle sempre in momenti di festa, riconoscendo in ogni uomo una presenza vera, viva, concreta – «con occhi di carne», soleva dire – di quel Dio con il quale sin da bambino gli piaceva giocare.
Il centro Bernardo Clesio, luogo di studio e di confronto voluto per concretizzare le indicazioni del Concilio Vaticano II, con don Silvio rifiorì di pensiero, con presenze talora impensabili, nomi significativi di alto livello, percorsi che seppero rompere la tradizionale visione di una chiesa proiettata al suo interno. Don Silvio seppe trasformare il Clesio in uno spazio capace di intercettare domande di vita, e di relazionarsi con mondi apparentemente anche molto lontani. Fu luogo di incontro, all’epoca quasi unico nel territorio, e campo di continua formazione.
Seduto al tavolo dei relatori, così come allo scrittoio, e ancor di più alla tavola della cucina – le tavoledella sua storia – don Silvio visse anni importanti, decisamente unici, mantenendo costantemente acceso un impressionante fuoco intessuto di tante piccole e grandi occasioni che a molti permisero di scoprire, oltre alla valenza della cultura, il senso dell’amicizia, della fedeltà, della libertà, mai esclusivo né prepotente. Un fuoco che lo sostenne nel suo carattere deciso, determinato, capace di appassionarsi a tal punto da sostenere posizioni non sempre e non per tutti apertamente condivisibili. Della sua schiettezza e della sua parresia ne furono testimoni in tanti.
Per alcuni anni fu delegato anche per la pastorale del turismo e del tempo libero. Un ambito che l’attrasse soprattutto nella conduzione di viaggi e di pellegrinaggi. Se come organizzatore, ovvero per la parte burocratica, lasciava talora a desiderare, come accompagnatore fu ineguagliabile.
Trento rimase la sua destinazione definitiva, sino all’inizio della settimana santa del 2001, quando, entrato in ospedale per un’operazione a prima vista banale, non ne uscì più. Erano le prime luci della sera del giovedì santo – 12 aprile – quando si strinse da solo nell’abbraccio definitivo con il mistero di Dio, lasciando a noi un ineguagliabile patrimonio di umanità.
In dialogo tra e con le confessioni cristiane – L’ecumenismo, questo movimento che sostiene il riconoscersi cristiani nelle diverse chiese, non fu tanto un impegno: in don Silvio si distingue subito un ecumenismo intrinseco, di natura, di sangue.
Il suo primo approccio, forte e vigoroso, fu con l’area della tradizione evangelica. Strinse fin da subito rapporti più che amichevoli con la realtà protestante locale, e in particolare con l’allora pastore Lindenmejer, che lo condusse ben oltre la dimensione provinciale: gemellaggi ecumenici con la Germania, con la Baviera, ma anche con altre comunità in Italia diventarono costanti. Accompagnò a Trento il costituirsi del gruppo luterano; intese subito relazioni più che fraterne con la piccola comunità valdese; con lui diventò abituale la partecipazione di questi cristiani altri alla vita della chiesa e della società, in anni molto diversi, ancora sospetti seppur in parte più coraggiosi di quelli odierni.
L’interesse sempre forte per gli ideali, e la tenacia nel sostenerli, lo premiò con innumerevoli opportunità, come l’ospitalità nella città del Concilio – per nulla scontato – di numerose commissioni provenienti da mondi evangelici diversi e lontani. L’esperienza che più lo segnò nella straordinarietà fu il terzo incontro ecumenico europeo, nel 1984, presenti tutte le chiese cristiane del vecchio continente, conclusasi con la comune recita del Credo, in duomo. Tenace in quell’occasione fu la sua richiesta – all’inizio contrastata persino dall’amico mons. Iginio Rogger – di togliere i banchi dalla cattedrale per mettere al centro il grande crocifisso del Concilio, nella volontà di offrire visibilmente un’immagine di sinodalità e il riconoscimento di chi deve davvero stare al primo posto, nel cuore della fede. Del mondo evangelico lo intrigava da sempre, come amava dire, l’amore per la Parola e la libertà delle parole.
L’ultimo decennio lo vide avvinto, se non di più, nelle relazioni col mondo ortodosso. Don Silvio aveva già provveduto a significative relazioni con la sede di Costantinopoli, in nome del luogo di provenienza dei Martiri d’Anaunia, ma ciò che ricordiamo con vigore è la stretta amicizia con la Chiesa del Patriarcato di Mosca. A partire da quel suo rapporto personale col patriarca Alessio II conosciuto a Trento negli anni ’70 quand’era diacono del metropolita Nikodim di San Pietroburgo.
Le relazioni col mondo ortodosso – grazie all’imprescindibile contributo di padre Nilo Cadonna segnato da un’amicizia sincera che sempre li contraddistinse – furono del tutto originali, soprattutto in quegli anni ‘90 dove il rapporto ufficiale tra Mosca e Roma visse drammatiche interruzioni a causa di gesti più proselitisti che fraterni. Si impegnò con tutte le forze – e con tutta la sua fantasia – nel concretizzare in particolare l’idea dei gemellaggi di base, così com’era stato suggerito dalla prima assemblea ecumenica europea tenutasi a Basilea nell’89.
Don Silvio riuscì a sostenere l’amicizia semplicemente perché seppe rendersi credibile, con tutti i suoi lati umani, con le sue passioni e con tutte le sue estrosità. Diventarono familiari, ancor prima di Mosca, San Pietroburgo e Puskin, Novgorod e Murmansk, Pskov e Vladimir.
In dialogo tra e con le religioni e le spiritualità- Nel suo mandato di delegato per il dialogo interreligioso, raccolse subito la sfida in rapporto alle altre due sorelle monoteiste presenti nel territorio: il mondo ebraico, con un lavoro costante, culturale, volto al superamento di tutta la vicenda legata alla storia del piccolo Simone, e il mondo islamico, con la sua vicinanza sin dall’avvio della costituzione della prima comunità islamica trentina.
Innegabile, qui, il suo ruolo alla Campana dei Caduti di Rovereto, di cui fu, oltre che assistente spirituale, vice reggente per tanti anni.
Amava sempre ricordare che, ancor prima del grande evento di Assisi del 1986 voluto da Giovanni Paolo II, il primo grande incontro di preghiera a carattere interreligioso avvenne proprio alla Campana nel 1975. Ma fu la collaborazione con la Conferenza Mondiale delle Religioni per la Pace – alla fine degli anni ’80 – a modificare il suo assetto di pensiero.
La sua presenza al Colle di Miravalle segnò infatti un passaggio importante, di natura culturale – e questo credo sia il merito più ragguardevole di don Silvio – vissuto nel passaggio da un dato esclusivamente celebrativo a un’idea progettuale, di pensiero, in grado di correlare le occasioni di incontro con la necessità di adottare strumenti atti a sviluppare un cammino di educazione alla convivenza, alla multiculturalità, al ruolo dei popoli e delle diverse storie, senza paure e preclusioni alcune, con uno sguardo importante sulle nuove generazioni.
Un impegno di anni che portò a momenti esclusivi, come la celebrazione, a Rovereto e Riva del Garda, nel novembre del 1994, della sesta assemblea mondiale della Conferenza delle Religioni per la Pace, avvenimento che gli ottenne in quell’occasione la presidenza onoraria di quest’organismo insieme alla trentina Chiara Lubich.
Rimase sempre ancorato ad una forte idea di fondo: contribuire, per quanto possibile, avvalendosi di ogni occasione, per rendere concreta e quotidiana la parola dialogo – soprattutto nei confronti di chi lo accusava di debolezza, di superficialità, di perdita d’identità – traducendola in rispetto, in accoglienza, in disponibilità, in vicinanza. E curiosità.
Perché era un uomo curioso, che non si lasciava accontentare dalla normalità e che mal sopportava la mediocrità.
In dialogo con il mondo e la sua contemporaneità – Don Silvio seppe sempre accompagnare il tempo. Seppe sempre comprendere il nuovo non come un’incognita ma come un’opportunità. Mai rassegnato al passato, visse guardando a un futuro sempre in divenire: per capire le cose «servono 365 gradi, 5 in più del normale», sosteneva, accompagnando le parole con un continuo gesticolare delle mani.
Quell’ideale influenzò tutta la sua storia, le sue relazioni, il suo mondo, compresa l’idea di Chiesa; irremovibile dinanzi a ritorni, a confessionalismi, a passatismi, come li definiva, anche a costo di perdere amicizie.
Amava sempre ricordare l’esperienza straordinaria, la Chiesa viva, come la definiva, vissuta nella preparazione del Sinodo diocesano, a metà degli anni ’80, che lo vide protagonista nei compiti di segreteria.
Mantenne sempre uno sguardo attento anche alle dinamiche politiche, non trascurando mai di suggerire pensieri – dove gli veniva richiesto – facendosi anche interprete di istanze rivolte al creare una società senza confini, inclusiva, aperta e coinvolgente, contro ogni chiusura confessionale o possibile barriera umana.
La contemporaneità lo intrigava, perché la sentiva come un continuo divenire, un continuo Oltre; una dimensione più che un vocabolo, una dinamica più che un luogo, un respiro più che una struttura, sempre in grado di profumare di altro, di spazio, di assenza di confini, di libertà, ma anche di responsabilità, di fatica, di coscienza, di fedeltà. E di ospitalità. Su cui investì sempre un grande trasporto.
A distanza di vent’anni dalla sua morte – considerando che in questi vent’anni il mondo è davvero cambiato – rimane ancor più forte quel suo ideale di non smettere mai di plasmare identità ospitali, in grado di ospitare ogni altro, non per trattenerlo in modo incondizionato ma per renderlo consapevole della sua dignità, della sua libertà, della sua responsabilità. L’attrattiva a cogliere quella vocazione umana che supera qualsiasi confine è il motivo per cui a don Silvio non potremmo che essergliene continuamente grati, per sempre.
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1 commento
Vorrei esprimere a Alessandro Martinelli un sincero grazie per la profonda riflessione che ci ha regalato ricordando don Silvio. Dopo vent’anni la sua testimonianza appare ancora di grandissima attualità, per alcun i aspetti pare proprio che non si siano fatti passi avanti. Rimane sempre vivo quel suo guardare “oltre”, una prospettiva religiosa e di vita che dobbiamo quotidianamente fare nostra . Ancora un grazie ad Allessandro per avercelo ricordato con grande sensibilità ed intelligenza. Luciano Azzolini