“Lui arrivava con il vento. Incalzante, tumultuoso, come il vento. Era intuizione, l’urgenza e l’incombente. Tutto passione. Di lui viene da dire come di un testimone del tempo. Ci ha abituati a uscire e a scoprire”. Così Giorgio Grigolli, sull’Adige, l’indomani della morte di Aldo Gorfer. Venticinque anni fa.
Il giorno che morì il più celebre giornalista trentino della seconda metà del XX secolo, il 12 giugno 1996, faceva un caldo africano. Quella mattina, il giornale l’Adige titolava: “Terzo morto per il caldo”. L’occhiello: “Ventilatori a ruba nei negozi, assalto all’ospedale: anziani e bambini a rischio”. Il sommario: “Trento, un barbone ucciso su una panchina. Nuovo record dell’afa: 34,9 gradi”. Ancora: lungo la valle dell’Adige, riarsa, “si blocca la ruota del treno: scintille sulle sterpaglie; fiamme da Ala a S. Michele”.
Nella tarda mattinata del 12 giugno di venticinque anni fa, la notizia della morte di Gorfer (bastava il cognome) si diffuse in città e nelle valli con la rapidità di una folata di vento. Suscitando un cordoglio unanime per quel “giornalista solitario sulle tracce della storia” (ritratto di Sandra Tafner) che per mezzo secolo aveva scritto e descritto il Trentino-Alto Adige come nessun altro. Dal giorno in cui, giovane aspirante stregone (della notizia), era approdato al “Popolo Trentino”, fondato e diretto da Flaminio Piccoli. La guerra finita da poco, una classe dirigente da costruire e una comunità regionale da ricostruire. Gorfer, classe 1921, per sfuggire ai Tedeschi, dopo l’8 settembre si era rifugiato nelle Giudicarie. Cambiava luoghi e paesi, calpestava i sentieri e le valli. Scopriva con stupefatta curiosità i segni della storia e le storie dei poveri cristi. Si innamorò degli uni e si fece paladino degli altri. Scriveva la cronaca come fosse un racconto; raccontava le persone con pensosa eleganza. Aveva il senso ritmico del poeta e il fraseggio del compositore di musica. Gli anni Sessanta, quelli della maturità professionale, coincisero con le grandi inchieste e i numerosi volumi, dai castelli ai villaggi, dal folclore alla storia. Irriverente con i potenti, causò qualche grattacapo alla direzione del giornale che era l’espressione del partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, house organ dei conservatori e delle tonache in cura d’anime.
Dopo la “notte dei fuochi” in provincia di Bolzano, (coincidenze della storia: Aldo Gorfer è morto il giorno del trentacinquesimo anniversario di quella drammatica stagione), fu mandato dal suo giornale proprio in Alto Adige. Venne fuori l’inchiesta sui masi di montagna, sugli “eredi della solitudine”. “E lui a scrivere, così forte nel chiedere rispetto ai valori dell’ambiente, così vicino ad un’umanità ignota a tanti”. Giorgio Grigolli confessava: “A volte ho avuto quasi la sensazione che nei masi del Sud Tirolo Aldo Gorfer abbia concluso – oltre che un itinerario umano e professionale – anche un proprio itinerario esistenziale. Certe domande (“siete felici”?) mi sembravano poste perfino con trepidazione. Certi interrogativi sul grado di “innocenza” riscontrabili in un modello di vita allora quasi primitivo, alla pratica di una religiosità così prossima al propiziatorio (il rito per le messi, il parto, la morte) sono tutti dentro questa scoperta, così assoluta, così rispettosa”.
Sandra Tafner, una delle poche penne al femminile nei giornali di quegli anni, scrisse che quello di Gorfer era “un giornalismo umano” e che “le nove colonne gli servivano tutte per titolare inchieste e racconti di vita vissuta”. Ancora: “Indisciplinato, sempre. Scriveva un pezzo e il suo pensiero rifiutava di adeguarsi alle esigenze della pagina, scriveva e non esisteva più niente intorno, quando batteva sui tasti non entrava nessuno nel suo studio. E giù cartelle e cartelle, una carta geografica, più correzioni a penna che testo. Il ragionamento non poteva finire se non quando era finito, perfezionista fino alla mania. Aldo Gorfer faceva impazzire i tipografi. […] L’Adige, il giornale di Flaminio Piccoli, il giornale dei trentini Doc, taglio conservatore come lo era la DC che lo ispirava, come lo era la Curia. Aldo Gorfer mordeva il freno. Lui era più avanti, più ribelle. E parlava con la gente più volentieri che con i colleghi, perché ne scavava l’anima per respirarne il passato, per capire il senso della storia”.
“Aldo Gorfer – scrisse Adriano Morelli – era figlio di una generazione entrata nel giornalismo per interessi letterari. […] Da solo o con il fotogiornalista Flavio Faganello, suo fraterno ed acuto compagno di reportage, ha consumato dieci paia di pedule ed ha condiviso migliaia di chilometri e milioni di passi, inseguendo sempre e comunque l’uomo per metterlo al centro di tutti i suoi racconti di vita vera”.
“Adesso che non c’è più, – concludeva Giorgio Grigolli – un Trentino un poco imbruttito negli egoismi locali e nelle omogeneizzazioni televisive, ha mille motivi per indicarlo come esempio. Vivono e passano uomini come questi. Ma la speranza del meglio continua, perché loro l’hanno rifondata”.
Venticinque anni dopo restano i suoi libri, le sue inchieste, il suo monito ai giornalisti di non piegare la schiena. Mai, davanti a nessuno. Aldo Gorfer fu un giornalista senza padroni, “energico e ottimista”. Uno spirito libero, con un’unica stella polare: il rispetto della verità e dei lettori. Venticinque anni dopo per “Gli eredi della solitudine” “Solo il vento bussa alla porta”.
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