Data sepoltura alle vittime della sciagura della funivia del Mottarone, resta la trepidazione per il piccolo sopravvissuto allo schianto del vagoncino. Sensazioni e angoscia che la comunità trentina ha vissuto sulla propria pelle nel 1976 e nel 1998 con le due sciagure del Cermis, La scrittrice e giornalista roveretana Patrizia Belli propone qui una breve riflessione tra memoria personale e commozione collettiva.
Ricordo molto bene, la prima volta che presi una funivia. La passione per la montagna e per lo sci mi convinse a vincere il timore del vuoto. Era inverno. Imbottita bene bene, le racchette in una mano e gli sci nell’altra sollevati in verticale, gli scarponi rumorosi e slacciati, un po’ baldanzosa, entrai nella cabina. Dondolava, all’epoca c’era un “pilota” che la guidava attraverso un pannello con dei pulsanti colorati. Ricordo bene quello rosso.
Uno strattone e la funivia si staccò dalla stazione. Mi guardai attorno, solo io sentivo un senso di smarrimento molto simile a paura? Guardavo i cavi, erano belli grossi, ma avrebbero tenuto? E se si fosse fermata a decine e decine di metri di altezza come ci avrebbero portati in salvo? Calcolavo la sofficità della neve, forse ci si poteva buttare, forse… Mi chiedevo se tutte quelle paure erano solo mie. A osservare la tranquillità degli habitué della montagna pareva di sì, ma non ero per nulla confortata dalla serenità del “branco”, certa che non era una garanzia.
Tra me e me mi confortavo con i numeri delle statistiche che so bene giudicano questi mezzi molto più sicuri di un viaggio in auto o in motorino. Però… però quella salita appesi nel vuoto non aveva nulla di naturale. Da allora ho usato centinaia di funivie, seggiovie, ovovie… ma ho sempre preferito salire con gli sci ai piedi. Forse siamo fatti per calpestare la terra e il resto ci sembra ancora troppo futuristico, chissà. Quello smarrimento, quella “fifa” mi è rimasta impressa e oggi mi è tornata alla mente dinnanzi alla tragedia di Mottarone e ho pensato a Eitan, l’unico sopravvissuto, un bimbo di cinque anni.
Ho cercato di immaginare la sua felicità… dopo i lunghi periodi di clausura a casa, finalmente una gita. La bellezza della montagna, l’intenso blu del lago, la mamma, il papà, il fratellino, i bisnonni… La felicità di un giorno di festa.
E quella cabina colorata che sale in cielo e sembra un giocattolo. La funivia dondola un po’ nel vento, uno sguardo ai genitori per rassicurarsi, perché un po’ di fifa c’è. Papà che gli mette la mano sulla spalla lo rassicura, che lo invita a distrarsi, a guardare il paesaggio: “Guarda, guarda quanto è bello!”
Sarà quello l’abbraccio che ha salvato il piccolo Eitan? Mi piace pensarlo, mi piace pensare a quella preziosa dote di felicità di tutte le persone che oggi non ci sono più, perché il dolore non ci distragga da quell’attimo: una giornata spensierata, una giornata di vita.
Dicono sia stato l’abbraccio del padre a salvare il bambino e io lo spero perché tutto questo dolore potrebbe essere un po’ lenito dall’amore di quel gesto. A lui l’abbraccio di tutti noi e che il nostro abbraccio sia la sua salvezza.
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L’abbraccio del papà ha protetto Eitan perché il suo papà voleva che lui continuasse ad essere felice su questa terra e loro, la mamma, il papà, il fratellino, angeli che lo accompagneranno tutta la vita proteggendolo sempre