Il “viaggio dentro l’umano”, attorno all’esperienza del limite, approda oggi nel tempo dell’attualità e della cronaca. Con la fragilità messa alla prova dalla pandemia, con l’incontro dell’altro che si scontra e si somma alle regole imposte dalla prudenza per la paura del contagio.
Primo intermezzo: Corpo e Covid-19 – Nell’attuale contingenza ed emergenza sanitaria il limite sfida ulteriormente l’uomo, imponendosi come invalicabile e insinuandosi negli anfratti più quotidiani del vivere. Viene reso limite ciò che non lo era. Il mondo ridotto alle dimensioni domestiche, quasi che varcare la soglia di casa possa assumere l’immagine dell’osare oltre le colonne d’Ercole. L’esperienza elementare e basilare dell’essere umano, il camminare, è fortemente limitata. Ci è richiesta la difficile arte del dirci dei “no”, di porci dei limiti ed attenerci ad essi. In particolare, l’esperienza dell’epidemia ha a che fare con l’invisibile, ma è corporea, materiale.
Il Covid-19 ci rinvia al limite che è il corpo, come abbiamo già ricordato: un corpo impedito di toccare, abbracciare, dare la mano… L’altro diviene minaccia; l’incontro semplice e festoso viene frustrato da un ridicolo tocco di gomiti o da un frettoloso cenno del capo. L’esperienza del toccare, così vitale ed essenziale, è impedita o bloccata dai cosiddetti gesti-barriera che l’epidemia ci obbliga a mettere in atto. Diffidiamo della pelle che non è la nostra e si insinua in noi il timore del contatto con la pelle dell’altro. La pelle è il nostro organo sensoriale più esteso e non solo spazialmente, ma in essa abita la memoria dell’abbraccio originario o dell’assenza di abbracci.
Paul Valery (1871-1945), il grande poeta francese del Novecento, ho scritto che “noi non possiamo uscire dalla pelle che ci plasma nel più profondo di noi stessi, fin dalla nostra storia più remota e lontana. Le palme delle nostre mani, le terminazioni delle nostre dita, questi miracoli di sensibilità della nostra pelle, ci conducono il più vicino possibile alla materia, ne sposano i contorni, la soppesano, la maneggiano, la palpano. La nostra pelle ci offre il mondo. E ci offre anche gli altri”.
Il nostro stesso volto, luogo di cristallizzazione della nostra identità, evocazione immediata del nostro nome, della nostra unicità, è obbligato a mascherarsi. Fatichiamo a riconoscere l’amico se non si toglie, almeno per un attimo, la mascherina.
4) Fragilità. La nostra società ha conosciuto, come tutti sanno, uno sviluppo straordinario; esso però non riesce a nascondere i segni di una fragilità che incombe, di un senso di debolezza che incrina ottimismi troppo facili. Il nostro tempo ha quasi i caratteri di un brutto risveglio (complice anche la pandemia, come si è visto), dopo un’era dominata dall’idea di un progresso inarrestabile. Ci si è resi improvvisamente conto che le risorse della terra non sono illimitate. L’equilibrio ecologico del nostro pianeta è sempre più minacciato, l’uomo si trova sempre più esposto, in balia di una società dove sono sempre più fragili le relazioni, i legami di coppia, di equilibri istituzionali, le alleanze politiche e culturali, il lavoro, le reti di comunicazione, i sistemi di sicurezza. Dopo l’11 settembre 2001 (una data simbolica) avvertiamo ancora di più la fragilità della nostra vita quotidiana, sentiamo quanto sia precaria questa civiltà che si pensava forte ed invulnerabile. La fragilità è la dimensione costitutiva dell’essere umano ma anche del mondo che lo circonda. Essa esige, da parte degli “umani”, lo sguardo lucido e critico per riconoscerla dietro le apparenze della forza, della solidità e della robustezza. Rischio, incertezza, “liquidità”, fatica, disagio, sono alcuni dei termini che declinano e contrassegnano sul piano sociologico e psicologico la fragilità del mondo contemporaneo. La fragilità dell’umano è, per esempio, espressa da Maria Zambrano, la grande filosofa spagnola del Novecento, con l’idea della “nascita prematura”, “incompleta”.
Ella scrive: “L’uomo non deve tanto costruire la sua vita, quanto proseguire la sua incompiuta nascita; deve nascere di nuovo, via via lungo la propria esistenza, ma non in solitudine, bensì con la responsabilità di vedere e di essere visto, di giudicare e di essere giudicato, di dover edificare un mondo in cui possa venir racchiuso questo essere prematuramente nato”. (In Il sogno creatore, Milano, 2002, p. 27)
Nascita e morte istituiscono l’uomo, ponendolo nell’orizzonte della fragilità e questa può essere il cuore dell’umanizzazione dell’umano. La fragilità umana, infatti, riguarda le relazioni, la salute, il lavoro: se la donna, l’uomo, non si riducono alla loro fragilità, tuttavia il loro essere ne è letteralmente impastato. La fragilità dice la nostra esposizione, la nostra apertura, che è, al contempo, apertura alla vita e all’amore, come al rischio e al pericolo. In questo senso ciò che conferisce valore alla fragilità non sono i suoi limiti (non ha senso elogiare la debolezza o la fragilità in quanto tali), ma il posto che quei limiti lasciano all’uomo, alla donna, per amare.
Qui emerge la prima dimensione etica della fragilità come appello alla responsabilità. Chi è fragile, come il neonato, come la persona sofferente o disabile, o vittima del male inflitto dagli umani, è un appello alla responsabilità, al prendersene cura. Il fragile attiva quello che da Hans Jonas è stato chiamato “il principio di responsabilità” che è anche il titolo della sua opera più importante. Questo principio, che si esprime come imperativo, non è riconducibile a un sentimento compassionevole, ma porta con sé l’istanza della giustizia e della misericordia.
Abitare l’umano, infatti, chiede anche l’assunzione dell’etica della cura, che è l’antidoto al disvalore dell’indifferenza e la messa in pratica del principio-responsabilità. Ad essa (all’etica della cura) va legato anche il concetto di “resilienza” che tenta di sottrarre la fragilità al rischio, da una parte, della fuga e della rimozione e, dall’altra, al compiacimento che porta una persona a “vittimizzarsi”, così da rendere difficile ogni tentativo di rinascita. Una rinascita, a dire il vero, che da qualche decennio non si riferisce solo all’ambito dell’umano, dell’antropologia, ma che si estende, ogni giorno di più, con urgenza estrema anche all’ambiente, all’ecologia.
La “fragilità” è anche la terra del cosmo, del “creato”. “Tutto è in relazione, tutto è connesso”, ci ricorda Papa Francesco nell’enciclica Laudato sì del 2015. Il che vuol dire che interrogarsi sulla nostra casa comune, cioè la terra, è sempre anche un interrogarsi sul senso e sul fine dell’uomo dentro e insieme con essa, per quella che ancora Francesco chiama “ecologia integrale”.
A più riprese il pontefice usa la parola “fragilità” per descrivere la situazione: “fragile” è il pianeta (n. 16); “fragile” è la natura (n. 78); “fragile” è la terra (n. 90); “fragili” sono, insieme, i poveri e l’ambiente. Per lui ogni abitante della terra deve ricordare che la sua vita, “dipende dall’esistenza degli animali, delle piante, dell’aria e dell’acqua… e deve fare affidamento sul sole, la luna e sulle stelle, senza le quali non può vivere. L’uomo esiste soltanto perché ci sono tutte queste creature. Esse possono esistere senza l’uomo, ma non l’uomo senza di esse”. E commenta: “Occorre prendersi cura della natura, affinché essa si prenda cura di noi!”. Per poi concludere con un monito, riassunto in un proverbio spagnolo: “Dio perdona sempre, noi perdoniamo di tanto in tanto, la natura non perdona più”.
5) Vulnerabilità – Va subito notato, nell’introdurre il concetto di “vulnerabilità”, la differenza con quello di “fragilità” presentato sopra, spesso considerati sinonimi. Vulnerabile è ciò che può essere ferito, colpito da un “vulnus”, il che suppone un fattore esterno, un colpo che proviene da fuori, un rapporto con l’alterità (cfr. P. Valadier, Apologia della vulnerabilità, Studi, 2011).
Comunque il termine è diventato progressivamente una “cifra” delle più diverse situazioni personali, sociali, ma anche materiali, a tal punto da essere un concetto impiegato nei più diversi contesti e nelle più variegate discipline. Esso indica l’aspetto di una “possibilità” e non di uno “stato”: si considera vulnerabile chi/ciò che è esposto suo malgrado alla possibilità di essere in qualche modo ferito nella sua integrità, leso, scosso, danneggiato. In campo antropologico la vulnerabilità indica una condizione non periferica o accidentale dell’esperienza umana. Essa ha molto a che fare con la carenza di “risorse” economiche o di protezione sociale: lavoro, reddito, salute… E ha molto a che fare con la carenza di relazioni sociali, di “reti di solidarietà”.
L’idea di “vulnerabilità” oggi, però, viene evocata anche a livello mondiale, nell’ambito dell’uso delle tecnologie digitali, per le intrusioni e manomissioni illegali nei sistemi informatici di persone, aziende, partiti, Stati. In tempi di incertezza, poi, la vulnerabilità diventa precarietà, imprevedibilità, indeterminazione. Ma, nello stesso tempo, la ricerca sempre più ossessiva della sicurezza, che tende a eliminare la fiducia e anche il dubbio: rendere tutto visibile, trasparente, significa eliminare le zone d’ombra, i dubbi possibili e gli stessi spazi della fiducia. Un mondo completamente “securizzato” è un mondo che ha estromesso la fiducia.
In particolare, ciò porta con sé anche la “crisi dell’interiorità”, cioè della persona umana di abitare se stessa. Vittorino Andreoli, il noto psichiatra, ha parlato dell’“uomo di vetro” (Milano, 2008), Catherine Ternynck, acuta osservatrice del nostro tempo, dell’“uomo di sabbia” (Milano, 2012) e più vicino a noi, Byung Chul Han, filosofo coreano residente in Germania, di “società della stanchezza”, come si è già ricordato all’inizio.
Paul Ricoeur, uno dei grandi pensatori del XX secolo, in “finitudine e colpa”, del 1960, mette in luce, con la sua profonda saggezza, che l’uomo/donna è un essere unico, perché non solo è “sproporzionato” (un desiderio infinito racchiuso in un’esistenza finita e limitata), ma è la sproporzione stessa. Per lui la vulnerabilità non è più l’esperienza di una gabbia, che impedisce e tarpa le ali a quella forza di infinito che c’è dentro l’umano, ma è piuttosto la custodia di una relazione, il luogo che costudisce il mio accesso verso l’altro.
Verrebbe da dire che la vera perdita per l’umano non sta nell’essere vulnerabili, ma nel lavorare a sottrarsi a tale condizione, perché viene meno la possibilità dell’incontro con l’altro (come afferma Emmanuel Levinas), che chiede di saper “patire” la situazione di vulnerabilità conseguente alla decisione di essere liberi da certe smanie di impossessarsi delle cose. È cosa necessaria saper accettare “scintille di vulnerabilità estrema”, perché si dischiude quello spazio intatto, senza percorsi predefiniti, in cui “l’altro” può essere presente. È il farsi da parte dell’io, quello spossessarsi da ogni pretesa di possesso, possibile solo quando si sa accettare l’estrema vulnerabilità, che si traduce in una germinazione di immensità.
(3. continua – le precedenti puntate sono in rete dal 11 e 16 maggio 2021)