La sciagura in Piemonte, sopra il lago a Stresa. Quattordici le vittime tra i rottami del vagoncino della funivia del Mottarone, per la rottura della fune traente. Scivolando verso il fondovalle, il vagoncino bianco e rosso ha preso via via velocità. In prossimità di un pilone è scarrucolato ed è precipitato da un’altezza impressionante. Il disastro rimanda alle due stragi della funivia del Cermis (9 marzo 1976; 3 febbraio 1998). Le rievochiamo per la memoria e per chi ne avesse soltanto avvertita l’eco nel racconto dei genitori o dei nonni. Nel 2021 in provincia di Trento sono operativi 267 impianti a fune: la maggior parte sono seggiovie e sciovie. Le funivie tradizionali, a doppia fune, sono 12; in provincia di Bolzano sono 22.
Accadde in dieci secondi, alle 17.15 di un pomeriggio che sapeva di primavera. La funivia del Cermis era arrivata quasi alla fine della corsa quando la fune traente, che s’era accavallata alla portante, tranciò per sfregamento i 254 cavi d’acciaio intrecciati a matasse. E la gondola, con 43 persone a bordo precipitò di là dall’Avisio, sul pendio ghiacciato del mass del Téta, a Salanzada. Morirono in 42, trenta turisti austriaci e germanici, dodici italiani e tra di loro tre diciottenni della val di Fiemme. Si salvò una studentessa milanese, Alessandra Piovesana. Con lei erano scesi due compagni di scuola mentre il resto della classe era rimasto alla stazione intermedia.
Il manovratore, la sopravvissuta, lo scomparso. E intorno quarantadue cadaveri, morti schiacciati dentro un vangoncino rosso precipitato per settanta metri su un prato innevato, di là dall’Avisio, ai Masi di Cavalese, dopo che la fune traente aveva tranciato per sfregamento la fune portante. Era il tardo pomeriggio del 9 marzo 1976, martedì. Una giornata di sole primaverile si stava spegnendo con le ombre della sera che si allungavano lugubri e tristi su chiazze di sangue, lame di sci spezzate, lamiere rosse accartocciate e un carrello di sghimbescio sul pendio. Quei dieci quintali di peso si erano scagliati come un maglio su una scatoletta di latta quando la cabina con il suo carico di vite umane aveva toccato il suolo. Le urla dei morenti si erano perdute nel vento della notte. Al bagliore delle fotoelettriche i vigili del fuoco cercavano indizi e spiegazioni da dare al magistrato per una sciagura non prevedibile.
“Impossibile, il cavo della funivia non si spezza”, ripeteva come un mantra nel corridoio dell’ospedale di Cavalese, l’ing. Arturo Tanesini, direttore dell’impianto del Cermis, dando copro all’ipotesi di un sabotaggio o di un attentato. Il cavo della fune portante era di là dalla valle, conficcato nella terra gelata dal colpo di frusta, aperto come un mazzo di fili d’acciaio esplosi e strappati da una forza invisibile e da una vampata al calor bianco. Nel locale accanto alla stazione di arrivo (e di partenza) della funivia, a Cavalese, un uomo in giacca a vento si strofinava gli occhi e continuava a ripetere a se stesso: “No l’è possibile, zio cane, no l’è possibol…”. Si chiamava Carlo Schweizer, aveva 36 anni, faceva il manovratore sull’impianto per il quale, benché gli avessero suggerito di dire il contrario, non aveva il prescritto patentino di gestione. Quel pomeriggio di marzo el 1976, forse a causa della velocità di discesa del vangocino, la fune traente si era sovrapposta alla fune portante e la cabina, carica di 43 passeggeri, si era bloccata, dondolante come una “gondola”, a settanta metri dal suolo, sopra la valle dell’Avisio. Dalla stazione intermedia il Carletto aveva telefonato al caposervizio dell’impianto, Aldo Gianmoena. Che cosa avrebbe dovuto fare? Non era la prima volta che il blocco automatico della funivia si disinseriva manualmente. “Sarà stato un colpo di vento, tutto si sistema, fai scendere la cabina a valle”, gli disse. Lo sventurato obbedì. Con la cabina vuota, il cavo più sottile della traente che s’era sovrapposto alla matassa di acciaio della fune portante avrebbe potuto causare qualche danno. Con la cabina a pieno carico, lo sfregamento aveva provocato una temperatura di milletrecento gradi e la fusione dell’acciaio.
Quel giorno i tipografi erano in sciopero per sollecitare il rinnovo del contratto di lavoro. L’indomani, nessun giornale italiano avrebbe dovuto essere in edicola. Ma alle 17.15 di martedì 9 marzo 1976, il cavo spezzato della funivia del Cermis fece riavviare, almeno in Trentino-Alto Adige, le Linotype e riaprire le redazioni. Tant’è che l’indomani, i quotidiani locali uscirono con il sigillo dell’edizione straordinaria. L’Adige titolava: “Un’orrenda sciagura: si spezza il cavo portante e si schianta al suolo la cabina carica di sciatori – 42 morti a Cavalese sulla funivia del Cermis”. I servizi erano firmati da Mario Felicetti, Gianpaolo Pretti, Toni Cembran e Antonino Vischi.
Nella fotografia di prima pagina i rottami del vagoncino rosso della funivia schiantato su un prato innevato e tutt’intorno i corpi senza vita delle quarantadue vittime: dodici italiani, trenta fra austriaci e tedeschi. Un’unica sopravvissuta, una studentessa milanese di appena 14 anni, Alessandra Piovesana, rimasta miracolosamente viva benché gravemente ferita, schiacciata e protetta dai corpi degli altri 42 che tornavano a valle dopo una giornata di sci o di lavoro sull’Alpe del Cermis.
La fotografia dei morti sulla neve e tra i rottami fu colta, assieme a poche altre (allora non c’era il sistema digitale che consente centinaia di scatti) da un fotografo di Cavalese, arrivato sul luogo del disastro prima dei soccorsi e del recupero delle salme. Non era provvisto di pellicola a colori e aveva a disposizione soltanto dodici fotogrammi in bianco e nero. Due furono mandati all’Adige, due li “comperò” per 10 mila lire il “Gazzettino” di Venezia. L’indomani, gli inviati dei giornali tedeschi avrebbero pagato fino a 400 marchi, uno sproposito, per una fotografia a colori. Che non c’era.
A una foto “rubata” è legata anche l’immagine dell’unica sopravvissuta di quella sciagura. La scattò, non visto, l’inviato del “Corriere della Sera”, fuori dalla porta appena scostata, mentre il medico entrava nella stanza al primo piano dell’ospedale dov’era ricoverata la minorenne Alessandra Piovesana. Nei giorni seguenti quella fotografia fu pubblicata da vari giornali stranieri e pure dalla “Stampa” di Torino dopo che il fotogramma era stato diffuso dall’Associated Press. Oggi non accadrebbe, ma quarant’anni fa la cronaca non conosceva i confini della privacy.
Gli inviati dei giornali nazionali partirono per Cavalese nel corso della notte. L’indomani mattina, da Milano arrivò Natalia Aspesi, inviata di “Repubblica”, il nuovo giornale con una fogliazione striminzita, in edicola da paio di mesi. Avrebbe dovuto “coprire” la sciagura con 15 righe. Quando lo confessò, candidamente, a noi cronisti di provincia parve una bestemmia. Così come, in quelle ore, volarono bestemmie pesanti e irripetibili all’indirizzo dei cronisti che cercavano informazioni per contrastare il depistaggio già avviato. Oltre ai danni all’impianto di risalita, si temeva il danno di immagine che avrebbe potuto travolgere a valanga l’economia di Cavalese e della val di Fiemme. Nessuno poteva immaginare allora che altre sciagure, altre “fatalità” come si voleva far credere, avrebbero seminato ancora lutti e piantato croci su quel disgraziato comprensorio turistico.
Per qualche giorno, in quei giorni di marzo del 1976, il “giallo” della scomparsa di un uomo, vittima con la propria famiglia della funivia del Cermis, tenne le pagine dei giornali. Si chiamava Fabio Rustia, era il cugino dell’arcivescovo di Trento, Gottardi, direttore della “Standa” a Mestre, in vacanza a Cavalese con la moglie e i due figli piccoli. I suoi congiunti erano fra le vittime allineate nel garage delle ambulanze, sotto l’ospedale di Cavalese, ma di lui non c’era traccia. Fu cercato nella notte e nei giorni seguenti, fra i dirupi e i boschi della valle dell’Avisio. Tre giorni dopo si scoprì che, nella confusione di quelle ore, c’era stato un riconoscimento sbagliato e uno scambio di cadavere. Tra le vittime anche tre giovani operai della valle che lavoravano sul Cermis: Ivo Delvai, Graziano Corradini, Erwin Bazzanella.
Non ci fu un giornalismo straccione. Anzi, la libera stampa diede prova di impegno civile. L’impegno dei giornalisti e dei giornali continuò negli anni. Si voleva e si cercò di far luce anche negli angoli bui delle mezze verità e delle palesi bugie confezionate con false promesse di avvocati di grido e di un posto sicuro per Carlo Schweizer, il manovratore senza patentino. Fu l’unico che pagò con il carcere. E poi con la vita. Il tumore che lo devastò fino a farlo morire, 22 anni dopo (24 luglio 1998), cominciò a crescere proprio in quei giorni. Morì di tumore pure Alessandra Piovesana, la “sopravvissuta”. Si laureò in lingue, faceva la giornalista per la “Mondadori”. Se n’è andata l’8 aprile 2009.
L’onda lunga di una tragedia coglie le proprie vittime anche a distanza di anni. Così come il “Prowler” americano dei marines, il “predatore” che avrebbe tranciato nuovamente la fune portante del Cermis. Ventidue anni dopo. Anche in quel caso, il “manovratore” dell’aereo, aveva il cognome Schweitzer. I morti furono venti.
Il “predatore” (Prowler) dei marines si esercitava nei cieli del Trentino per la guerra elettronica che avrebbe esercitato, di lì a qualche mese, nella guerra dei Balcani. Volando a bassa quota portò la morte nei cieli di Cavalese. Il vagoncino della funivia precipitò di là dall’Avisio poiché il velivolo militare, a bassa quota, aveva tranciato i cavi ai quali era sospesa la vita di venti innocenti. Accadde alle 15, passate da poco, del 3 febbraio del 1998. E in fondo alla valle, che aveva già vissuto analoga strage, il ruggito del predatore dei marines, ormai lontano, si spegneva in uno stupefatto silenzio di morte.
L’aereo tornò alla base militare di Aviano, in Friuli, sia pure un po’ ammaccato ma con l’equipaggio in buone condizioni. Tanto buone che, prima di lasciare il velivolo due dei quattro piloti avevano avuto la prontezza di distruggere il filmato del registratore di bordo. Per quella “ostruzione al corso della giustizia” Richard Ashby e Joseph Schweitzer furono poi condannati dalla corte marziale dei marines a Camp Lejeune, nella Carolina del Nord. Non per i venti morti, ma per aver distrutto un filmato. Sei mesi di condanna per “ostruzione al corso della giustizia” e radiazione dal corpo dei marines.
Gli atti che seguirono portarono al rimborso record di 4 miliardi di lire per ognuna delle vittime e a una commissione parlamentare d’inchiesta sul disastro. Nel frattempo, ci fu la guerra nei Balcani (per la quale i gemelli del “predatore” del Cermis si dimostrarono utilissimi nei voli a bassa quota), la funivia fu sostituita da una cabinovia, meno slanciata sulla valle, più sicura di quei cavi aerei sulla gola.
Mauro Gilmozzi, sindaco di Cavalese in quei giorni: “Al principio gli Americani hanno protetto i loro apparati militari; della giustizia penale non si sono mai preoccupati. Come se un risarcimento fosse sufficiente a cancellare ciò che è accaduto. Il resto è dolore e basta”. “Se uccidi un uomo è omicidio. Se ne uccidi venti è un errore”. L’epitaffio fu scritto col pennarello rosso su una stele di legno, piantata accanto alla croce di ferro in cima al prato dove si schiantò il vagoncino giallo.E i morti? Un monumento di pietra li ricorda nel parco della Pieve, a Cavalese, nel nuovo cimitero. Tra le venti vittime del “secondo Cermis” ci fu Marcello Vanzo, 56 anni, dai Masi di Cavalese, dipendente della società Funivie. Benché fosse il suo giorno di riposo, quel martedì 9 marzo Marcello Vanzo aveva sostituito un collega di lavoro. Al funerale, nella chiesa della SS. Trinità dei Masi di Cavalese, il parroco Tommaso Volcan ebbe parole durissime: “I morti a Dio, a chi resta almeno la giustizia”. Che non ci fu.
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