La mise inusuale di una rappresentante dell’Autonomia ha fatto andare la mosca, anzi: il Moschino al naso a taluni osservatori ed offre lo spunto all’arch. Pier dal Rì per un “amarcord” su come eravamo e come siamo diventati.
Debbo ammettere che la mia età e la mia storia sono elementi che condizionano in modo deciso il mio modo di giudicare e di valutare ciò che accade nel campo politico del nostro Trentino. Indubbiamente, però, continuo nella mia convinzione di essere un trentino fortunato e di aver vissuto anni fecondi e floridi per il nostro territorio. Nel 1972 ho iniziato il mio lavoro in Provincia, in un Ente che era poco più che un comune ma che stava per divenire qualcosa di più di una regione. Un laboratorio interessante di “autogestione delegata” su un consistente “pacchetto” di competenze. Le quali, via via, divenivano ogni settimana attività di gestione diretta locale del governo provinciale che si sostituiva al governo nazionale. C’era l’onere di allestire strutture amministrative nuove ed efficienti che sapessero dar prova di capacità, rapidità correttezza ed onestà. Si era spronati a far tesoro della, spesso evocata, gestione amministrativa e sociale di un secolo di dominio austroungarico che in molti campi aveva lasciato un ottimo ricordo. Quasi ogni settimana, il presidente Bruno Kessler, ci comunicava: “Questa notte ho portato le competenze dei forestali, poi della Sovrintendenza ai monumenti, poi dell’agricoltura. Di competenza in competenza il quadro del governo locale era cresciuto e irrobustito con il trasferimento di personale dallo Stato e di nuove assunzioni. In breve tempo si è imposta la nascita di un Ente potente, forte ed efficiente, capace di dimostrare che il controllo e la responsabilità diretta delle popolazioni amministrate consentiva di far bene. Al punto da registrare una corale condivisione sociale e politica.
Frequentemente, quanto di andava a Roma per definire i dettagli dei trasferimenti di norme e competenze, si registrava una sorta di timore, quasi che l’apparato statale paventasse che una vistosa vetrina di efficientismo locale potesse dare il là ad una richiesta di federalismo diffuso, come poi di fatto avvenne. Ricordo che nelle trasferte a Roma, per partecipare al tavolo di lavoro con i funzionari dei ministeri, una giacca di lana cotta con i bottoni di corna di iungulato aiutava molto. Serviva a far capire agli interlocutori romani che la cultura Mitteleuropea ci apparteneva e le competenze erano il frutto di una volontà di pacificazione fra popolazioni con cultura, lingua e storia differenti. Tale mise “spiegava” pure che i contrasti e snervanti trattative politiche, peraltro forti ed autorevoli, avevano consentito un progetto di convivenza concordata. Una pacificazione sociale progressivamente verificabile dalle parti, assistite da garanzie internazionali.
La premessa per dire che il consiglio provinciale, massimo organo rappresentativo dell’autonomia, ha ospitato, negli anni, dibattiti di spessore. Momenti di grande interesse storico, con consiglieri dalle doti oratorie sublimi. In quegli anni, assistere ai lavori dell’assemblea di piazza Dante, a Trento, suscitava un clima di grande interesse ed entusiasmo. Si respirava il senso di appartenenza ad una comunità della quale andar fieri. C’era la convinzione che il Consiglio Provinciale fosse il luogo nel quale si decideva quale Trentino garantire alle generazioni future dimostrando che si poteva fare e far bene.
I fatti lo dimostrano. Quanto abbiamo saputo fare ha suscitato invidie diffuse. Noi, “quelli delle giacche de coram”, abbiamo, involontariamente, scatenato un esercito di biliosi e detrattori. Nell’assistere oggi a un dibattito in Consiglio provinciale dalla tribuna del pubblico, balza all’occhio (e all’orecchio) il vuoto culturale, dei contenuti politici, e persino dell’abbigliamento. Ha suscitato un certo imbarazzo il look personale della consigliera Ambrosi, sempre elegante, perfino troppo, poiché da quella giacca con il tricolore trasparivano il suo “credo” politico e il suo modo di agire. La giacca Moschino (costo 1.175 euro, iva compresa) a mo’ di bandiera d’Italia, da lei recentemente indossata, tendeva a far capire che sono finiti i tempi dei piumotti e delle giacche tirolesi. Quasi a ribadire che i fascisti italioti sono ormai una forza consistente che merita visibilità. Quale miglior modo di emulare le “sorelle Bandiera” indossando una vistosa e costosa giacca tricolore. Un capo di abbigliamento che, da solo, dice ai trentini che sta finendo il Trentino costruito a furor di norme e pacchetti di competenze primarie. I presidenti della Provincia non vengono più dalle valli del Noce e, anche in Consiglio Provinciale, l’abito “parla” senza chiedere il permesso di parola. Permettetemi di dire che, forse, i trentini democratici che hanno scelto i loro amministratori hanno ciò che si meritano. Immagino che Dante, dal piedistallo di pietra, in mezzo alla piazza che lo onora, sarà contento di aver vinto la sua scommessa. Da qui in giù siamo Italia. E si vede.