Una sua fotografia, che pare un dipinto di Segantini, è finita nientemeno che al Palazzo delle Nazioni Unite, a New York. L’ha scattata una giornalista veronese, Silvia Zanardi, la quale, nell’estate del 2015 ha dedicato alla Gianna un capitolo del suo magazine “Storie di chi”.
Titolo: “Dalle donne di Malga Canali, dove non esistono menu e si parla della luna”.
La storia di Gianna Tavernaro (1957), nata e cresciuta fra il verde dei prati, lo sguardo severo delle Pale di San Martino e il vento della val Canali, è il racconto di una donna straordinaria. Di una saggezza montanara che non si trova più, perché plasmata nel crogiolo della fatica, distillata come il cinabro e i filamenti delle miniere d’oro della valle del Mis.
Conosce il mondo attraverso gli occhi di centinaia di uomini e donne che arrivano dal mondo a farle visita, a trascorrere nel suo chalet, che ha chiamato “El camin che fuma”, qualche ora o qualche giorno. Di serenità e di semplicità.
“Noi no gavén el problema de malàrne, ma de fàrne mal. Guai se no ghe fusse i medici parché l’è angeli en terra. Adess che vedo tute ste persone, tutti sti ambulatori affollati… Tòghe anca mi pastiglie. Però me par che adesso no i abia pi temp de scoltàrse anca en cich de mal de testa. Mentre ‘na volta te eri preso fóra dala natura, de andar, de far, no te avevi sti problemi. El problema l’era se te te févi mal. E farse mal, esser fora ‘n t’en maso l’è diverso, parché el problema dell’amalarse l’era ‘na relazione diversa tra ti e la natura”.
Nata in un maso, a tre mesi la Gianna fu messa in una cassetta della frutta e portata a malga Canali, in affitto dal conte Welsperg. “Ero la più piccola di tre sorelle e mio papà mi ha allevata come fossi il maschio di casa. Ho vissuto la mia bella infanzia tra mucche, capre, montagne, alpinisti, guide, ma sempre lavorando. Lavorando con gioia, con dei saperi, con dei genitori che ti facevano capire i valori di un territorio. Ricordo una volta che siamo scesi a valle con il carro e il cavallo, da malga Canali al primo ristorantino che era sotto, piccolo, “El cant del gàl”. C’era fuori, in bella mostra, il cartello giallo dei gelati “Algida”, i primi. Io ho il ricordo delle nostre baite molto buie, perché non c’era luce. Era più chiaro fuori, con le stelle, la luna. Anche i genitori vestiti di scuro, sta candela che bisognava risparmiar; insomma c’era tanto buio. Vista sta cosa gialla, ho detto: “Papà, papà che bello quel cartellone giallo!” Ha fermato il cavallo, mi ha messo una mano sulla spalla e mi ha risposto: “Tut el nos laoràr butà via ‘n ten tòc de plastica”.
Parola di Gioacchino Tavernaro (1913-2006), sposato con Maria Scalét (1918- 2003 )
“E da allora, ogni coperchio, ogni cosa, mi ricorda questa frase. Anche un secchio. Una volta, se il secchio era rotto lo aggiustavano, aveva un valore storico. Aggiustavano un ombrello, aggiustavano tutto. E non la sento come un’umiliazione, lo sento come un grande orgoglio. Parché se dovessi andare all’Isola dei Famosi, sicuro che vincerìe. E quando i primi parenti cominciavano ad andare in Australia o ‘n giro, il papà mi diceva: “Ricordate che l’America l’abbiamo qua”.
Un giorno Gioacchino comandò alla figlia di tagliare la legna. La Gianna rispose che avrebbe potuto farsi male. Suo padre, sbrigativo, replicò: “Anca con l’uncinetto ti puoi tagliare”. Da quel momento, dice lei, “io e la montagna siamo diventate una cosa sola”.
La Gianna guarda negli occhi i suoi animali e capisce immediatamente il loro stato di salute. “È vero, ma questo è tipico di tutti. Sono cose che sanno tutti ma non hanno più il coraggio di dirle. Pensano che siamo diventati tutti ricchi e tutti sapienti. E invece abbiamo perso la saggezza di un tempo. Anche un medico, quando un paziente entra in ambulatorio, per prima cosa lo guarda. Uguale era con le bestie. Vedi subito se hanno la febbre. Quando accarezzi l’animale, senti il calore della sua pelle. Lo guardi negli occhi, vedi se sono spenti… Fanno parte della tua vita, fanno parte di te”.
“Un giorno mio papà si è tagliato una gamba con la roncola e io ho perso l’anno scolastico perché ho dovuto sostituirlo nel lavoro nella stalla. Avevamo una quindicina di bestie da latte, manze, pecore, galline. Ricordo che è venuto su il preside e ha detto: “Se vuole, signor Gioacchino, sua figlia la promuoviamo ugualmente”. Ricordo benissimo la risposta del papà: “Mia figlia non viene bocciata perché non ha studiato ma perché è stata a casa per aiutarmi. Perciò ripeterà l’anno con grande fierezza. Io non voglio che promuoviate mia figlia, ripeterà l’anno scolastico”. E così è stato. “Mi ha fatto ripetere l’anno, ma con orgoglio”.
Gianna Tavernaro, pastora a malga Canali, ha frequentato le elementari e le medie. Ogni giorno, con la neve o con la pioggia, con il ghiaccio o con il vento, scarpinava per 15 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno, per raggiungere la scuola a Transacqua. Che già farlo in automobile o con lo scuolabus, oggi sarebbe considerata un’impresa. “Eravamo in tanti a fare questa vita, chi più chi meno. Io ero quella un po’ più lontana ma al passo Cereda ci incrociavamo fra chi andava e chi tornava. Io avevo una professoressa alle medie che, quando arrivavo a scuola, mi metteva vicina al calorifero. Madonna i diaolìni [i geloni]. E non osavi dire niente. Sai che male. Ma lei lo faceva a fin di bene per riscaldarmi. Andavo a scuola con gli stivali di gomma e l’ultimo tratto, arrivata in paese, li toglievo e calzavo le scarpe. En te ‘na ora en quart eri do” (ero giù a scuola in poco più di un’ora).
Impiegava un’ora e un quarto a scendere, un po’ di più nella risalita. Elementari e medie e poi in stalla a lavorare. Avrebbe potuto proseguire negli studi, ma…
“È successo quando ci furono i primi giochi della Gioventù. Corsa intorno al campo: ho ciàpa ‘na medàia. Lancio del peso: figùrete ‘sta bala, l’avea passà fora tut. Se pestéa la legna, avevo do muscoli cossì! Do medàie. Ma più delle medaglie mi aveva colpito il cordoncino. Le nostre baite erano buie, genitori bui, e sto cordoncino che aveva la bandiera italiana mi piaceva proprio. Sono arrivata su alla malga e ho detto a mia mamma: ho preso le medaglie e éla subito la m’ha dit: “Pìchela là sul prim ciòdo”. Appendila al primo chiodo.
“Dopo due o tre giorni si sente arrivare una macchina. Era un avvenimento. Fuori dalla porta del fienile, mi e me papà, il preside e la professoressa de ginnastica. Me papà avea la forca in mano e mi stavo da una parte. Si è tolto il cappello, li ha salutati. ‘Na occhiata che ‘l m’ha fulminà, come a dir: “che atu combinà?”
Lori i ha detto: “Signor Gioacchino sua figlia è brava, vorremmo mandarla alle gare provinciali a Trento”. El papà ‘l ha girà en cit sta forca e ‘l me ha vardà e l’ha vardà lori: “Cossì lontan? Eh no!” l’ha dit. La me carriera agonistica l’è finìda lì. Ma orgogliosa, perché ho ‘mparà altre robe”.
Era il 1970. L’alluvione era passata da quattro anni ma le cicatrici erano ancora sanguinanti. “Quando accadde ero alla malga. Non si poteva passare perché tutti i ponti erano crollati. Dopo una settimana, con mio papà siamo venuti fuori e siamo andati sul Col di Cistri e da lì vedi giù tutta la valle di Primiero. Io ho questa visione di tutta la ghiaia in mezzo alle case di Transacqua e il mio papà che l’ha dit: la nossa casa la è in pè [la nostra casa è rimasta in piedi]”.
La Gianna si è sposata nel 1976, quando aveva 19 anni. “Col me Cornelio (Cemin, classe 1952). L’avevo conossesto a portare il latte al caseificio. Elo con la macchina co’ l’antenna e mi col carro e i cavài. Po’ ne sen sposàdi”.
Il Cornelio andò a prenderla assieme al fotografo, per condurla in chiesa, con una vettura tirata a lucido. La Gianna stava tagliando il fieno: “Comanda la montagna. Comanda sempre lei, figurarsi se un matrimonio può fermare la natura”!
Da quel matrimonio sono venute al mondo due figlie, Rita e Lucia. L’unione funziona da più di quarant’anni. Forse perché in casa Cemin i pantaloni stanno bene alla Gianna. Il Cornelio la segue come un’ombra, servizievole e devoto che più non si potrebbe. Una vita di grandi soddisfazioni ma pure di fatiche, par di capire.
“Una vita di grande orgoglio. Non mi pesa la fatica perché ho imparato il lavoro. Qualunque cosa mi si chieda non ho paura; ho imparato il vivere anche in posti sperduti, così. Mi fa quasi più pena vedere tutte quelle persone correre con la macchina, prendere il carrello della spesa… correre e correre. Avranno più comodità ma anche un’infelicità esteriore, enorme, che la annusi da lontano.
Penso che come me ce ne siano tantissimi. C’è chi mi dice: sei fortunata perché vivi qua. Io penso che chiunque di noi, se spegne la luce e accende una candelina sulla tavola ritrova sé stesso. Basta avere il coraggio di non vergognarsi di essere stati poveri”.
Che cos’è la felicità, Gianna? “Podér levàr tuti i dì e dir bondì”.
E la solitudine che cos’è? “È una meditazione. Non si è mai soli. Il vento parla; anche l’ultima foglia dell’albero parla. Basta savérse fermar. Basta sapersi fermare ad ascoltare. Perché son nassèsti tuti ‘n te ‘na stàla e son nassèsti tuti sota en péz. E quando esci e vedi tutti sti supermercati e tutti sti piazzali, lì, anche in mezzo al cemento io vedo un filo d’erba che cresce. E gli altri magari non lo vedono. Bisogna che la gente impari ad aprire gli occhi e cominci a osservare. I starìe mejo, no i avarìa tante paranoie par la testa… parché anca en filo d’erba en mez al cemento dice tutto”.
Certo, bisognerebbe saperlo leggere. “L’è quel che dighe: la gente bisogna fermarla, no dirghe sempre de sì; ogni tant bisogna dirghe anca de no. Se i vol el menù se ghe dis de no: questo ghè. Ognuni i deve saver accontentarsi del suo poco”.
Gianna, i clienti che arrivano fin qui che cosa domandano?
“Vogliono casa. A loro non interessa il letto o come è arredata la stanza, chiedono l’accoglienza e vogliono sentirsi a casa. Che è quello che manca”.
Arrivano da Roma, Verona, Padova, Milano e anche dall’estero. Molti i clienti celebri passati dalla malga della Val Canali: da una star del cinema americano a Vinicio Capossela, da Erri de Luca a Gianni Morandi.
“Ma la cosa che mi ha commosso di più è stato a ferragosto di qualche anno fa. Stavo tirando fuori le zuppe perché su alla malga facevo sempre zuppe. È stato un mio percorso: volevo fare cose che gli altri non facevano. Anche se al principio avevo la malga vuota, pazienza. Oggi aprono un locale e lo vogliono pieno subito. Deve esser la goccia che spacca el sass; e ‘l sass fermo no ‘l rotola. Se io avevo trenta coperti, trenta erano e non di più. Insomma ero diventata quella del “no”.
C’è posto? No! Io ho sete di sapere cosa c’è fuori dalla valle e se sono relegata in cucina a sfornar strudel, polenta e salsicce, non posso parlare con i miei ospiti. E mi sfuggono di mano le cose belle della vita”.
Diceva, ferragosto. “Tutta sta gente! Mi dispiace, non c’è posto, perché l’azienda agricola è piccola. E via con sta filastrocca. Dopo averla detta dieci, venti volte, come una corona, sento dietro di me un’anima che dice: “Gnanca qua no i ne dà da magnar”. Me son giràda e ho vist sto contadin mesto, la moglie che l’avea su ‘na giaghettina che la era quela dela prima comunion de so fiol, probabilmente.
Vedevi che i se avea mess la roba pi bèla per nar a far ‘na gita. E dove li è ‘ndati? In malga e in malga si son sentiti rifiutati. I ho vardàdi, ho postà giò le ciòtole, aveva ‘na tòla ocupada. Fòra de qua! G’ho dit a quei de la tòla, g’ho da darghe da magnàr a sti signori. Ho mandà fora el turista. G’ho preparà tut, serviti e riveriti e po’ g’ho anca oferto el disnàr”.
Lasciata malga Canali alle due figlie, Gianna e il marito si sono spostati di qualche chilometro. L’ospitalità è ricominciata, più intensa e più blasonata di prima. Gente anonima che poi scopri essere personaggi del jet set oppure no. Magari dei “numeri uno” nella professione che qui perdono il numero e diventano esseri umani.
“I ariva sc-iopàdi, i vèn chi da ospiti e i va via da amici. Era così anche alla malga Canali. Io non ho mai voluto fare il menù. Arrivano e ti dicono: mi dia il menù. Se vengono da me devono accettare la mia filosofia perché se io vado dal dottore, ho fiducia in lui, lascio che sia lui a decidere che cosa devo prendere di medicine. Così se uno viene e domanda il menù, qui ha sbagliato posto. Chi arriva viene per trovare la Gianna e il Cornelio, così come alla malga Canali trovava noi e la nostra famiglia, senza menù. Mangiava quello che c’era. Se c’era da aspettare si aspettava e si mangiava tutti assieme. Perché così loro si rapportano. Sta cosa qui l’ho fatta anche per me perché il treno va su due binari, mai su un binario solo. Così anch’io, stando ferma, ho scoperto il mondo”.
Il suo mondo è racchiuso tra le rocce delle Pale, il prato della malga che fa da tappeto al cielo punteggiato di stelle, all’acqua gorgogliante fra i sassi, alle stagioni annunciate dal vento.
D’inverno, in Val Canali l’acqua della sorgente gelava. Bisognava andar giù, fino a Transacqua, a prendere l’acqua anche per le bestie. Ma il venerdì santo, quasi un appuntamento con il prodigio, la sorgente tornava a sgorgare.
Tornava la primavera, si “faceva” la luna di marzo, fiorivano i prati.
“La luna muove il mondo. Va consultata prima di prendere decisioni, fosse solo il gesto di tagliare un albero. La legna delle piante, se la pianta è tagliata sul crescere di luna, resta verde. E poi marcisce. Se hai bisogno di legna da ardere la devi tagliare sul calar di luna. Così hanno insegnato i nostri genitori e così noi ai nostri figli. I miei genitori mi hanno educata ad ascoltare la natura, ad accompagnare i suoi cicli, a leggere i suoi silenzi”.
Un rito sapienziale, una cultura orale che chi viene da fuori potrebbe respingere inorridito. Ma non chi va dalla Gianna. Perché non è lei a doversi adattare. È l’ospite che deve sedersi alla tavola comune, a condividere. A raccontare. A dare testimonianza della sua vita “di prima”. Perché dopo un soggiorno dalla Gianna, molto sarà diverso. “Imparo parole nuove, vedo la moda, io devo avere un’infarinatura di tutto, dopo sta a me scegliere quello che voglio”.
Una vita sapida, par di capire. E allora, a che cosa serve il sale, Gianna?
“Il sale lo usavano nelle stalle. Adesso fanno incensi, ma una volta c’era il sale. Ed era prezioso. Il giorno di Sant’Antonio, alla chiesa di Transacqua, si portava il sale a benedire. Anche adesso, in verità. Il sale, una volta benedetto in chiesa, lo portavi nelle stalle, lo mettevi sul comò della camera da letto. Il sale purifica. Quando hai male ai piedi usi acqua e sale. Il sale l’è la base de ‘na grande medicina”.
Anche le lacrime sono salate. Una vita senza sale “è come una sposa senza amore”.
Il sale serve per insaporire le pietanze, ma serviva anche per gli animali.
E quando c’era bisogno di una medicina, ci si rivolgeva alla “farmacia di Dio”: le erbe e le piante, la resina e il grasso del maiale, la “sonza” e la mascella che si metteva “dentro ‘n tel bus a sugàr. All’interno c’era un olio che ‘l féa ben par tuto. Acqua e sale”. La panacea.
“Se ghéva sempre sta mascella de porzèl. I la spacchéa e vegniva for l’olio de porzèl. Che se usava par l’esterno, soprattutto. Nele nostre case ghe n’era sempre anca l’olio di ricino. E dopo ghe n’era le erbe. Se te ciapéi ‘na becàda, ghe n’era la piantaggine; se te avei diarrea te bevevi l’alchemilla… I te féa giò de quele brodaglie, le tisane. E dopo i te déa valeriana e avanti”.
Nell’ampia cucina della “scatola di fiammiferi” sono collocati oggetti di legno e pillole di saggezza scritte su foglietti di carta appesi al muro con una molletta o vaganti, qua e là, per riflettere e far riflettere gli ospiti.
“’Na volta, quanche se entréa ‘n te ‘na casa se la benedìa, giusto? Adesso no i sa gnanca pi quel che vol dir. E anca quando che ti te portéi le vache ‘n ten posto, che te cambiéi posto, domandavi a quel luogo se eri accettato. E non era sempre sì e subito. Prova a entrare in una casa. Ci sono luoghi inquietanti. Se guardi bene, se interroghi qualcuno, poi scopri che in quel luogo è accaduta una disgrazia, che c’è stato un grave fatto di sangue. Se ascolti la natura, le piante e il vento ti dicono tutto”.
Poi c’era la furbizia, l’astuzia che si insegnava ai bambini come scuola di sopravvivenza. Prima di venderlo, per esempio, si mungeva la vacca e si dava da bere al vitello un paio di litri di latte. Così l’animale avrebbe pesato due chili di più. Poi gli si cambiava la catena. Quella della vacca era più robusta e più pesante: altro mezzo chilo in più. Così con la lana delle pecore. Si portava al torrente a lavare e mentre galleggiava sull’acqua, si cospargeva tutto con la sabbia fina, la quale, penetrando tra i ciuffi, contribuiva a rendere più pesante il vello.
I “conza”, per esempio, gli impagliatori di seggiole di Sagron-Mis, inserivano fra la paglia qualche avanzo di mortadella o una lisca di pesce. Il gatto di casa avrebbe graffiato la seggiola impagliata fino ad agguantare la leccornia. In tal modo, l’anno seguente si richiamavano gli impagliatori per “aggiustare” la seggiola.
Il giorno che la incontrammo, alla vigilia della pandemia, la Gianna preparò gli gnocchi di patate. Eccezionali, come quelli della nonna. “La prossima volta che faghe i gnocchi ve li fago mangiar cossì: se mét la scudèla in mez e tuti i magnón su. Come che se uséa ‘na volta”.
Poi fu portato in tavola una sorta di purea di patate, cotte nel latte, schiacciate e condite con erbe aromatiche. Accompagnato da uno spezzatino di muflone, fu un piatto da gourmet.
Tuttavia, per quanto potesse essere prelibato, non era quello il piatto che la Gianna serviva ai propri ospiti. La cultura contadina ha sempre privilegiato il celebre “piat de bòna cera”, il piatto dell’accoglienza e del sorriso.
“Io vivo in una scatola di fiammiferi. Mi servono solo un camino che fuma e due sedie: una per me e una per chi viene a trovarmi”.
Così, la malga, che stava diventando troppo grande, cominciò a starle stretta.
Nell’estate del 2015 la Gianna passò la gestione di malga Canali alle due figlie e ai generi. Perché lei sentiva di essere ingombrante, capiva che le figlie non avrebbero mai potuto volare se lei non le avesse “costrette” a spiccare il volo, come le aquile di San Martino.
Con il Cornelio, la sua anima gemella e silenziosa, si è ritirata poco sotto il passo Cereda, lungo un torrente. C’era un vecchio fabbricato, una baita con fienile annesso. Il camino era spento da anni.
La Gianna e il Cornelio hanno acceso il fuoco, vi hanno messo una pentola a bollire. Il camino ha cominciato a mandare sbuffi sempre più intensi ed è stata subito casa.
Chi ha provato gli alberghi a cinque stelle, oggi cerca una struttura alternativa. Magari una stalla o un fienile ristrutturati, dove, per la cena, non si devono indossare giacca e cravatta. Dove la competizione è con sé stessi, con un’immersione nel silenzio e un’emersione che restituisce il sapore di casa. Probabilmente mai avuta e, se lontana nel tempo, ancora in tempo per restituirla almeno alla memoria.
Gianna Tavernaro compie gli anni il 16 gennaio, sant’Antonio abate il patrono della stalla. Qual è il bilancio dei primi sessant’anni?
“Orgogliosa di essere contadina, fiera de esser vivèsta in mezzo alle montagne, parché la natura ti dà tutto. Sono soddisfatta anche che attorno a me è girato il mondo. E lì ho colto il meglio di tutte ste persone”.
O forse sono state le persone passate da casa sua che hanno colto il meglio di lei. Chissà?
A maggio del secondo anno di pandemia, il “camin che fuma” riprenderà a mandare fumo. A disperdere nell’aria, come un messaggio nella bottiglia, pillole di saggezza, abbracci di tenerezza.
© 2021 Il Trentino Nuovo