“Peter, stai bene? Te lo chiedo perché qui al villaggio hanno chiuso la scuola…”. “Peter sta bene”? “Si, pare che si divertano molto, in attesa che chiudano la scuola anche lì. I fornitori lasciano i viveri al cancello e loro li vanno a prendere”. “Beh, è molto prudente. Ancora nessun sintomo da loro?” “Peter dice che una dozzina di ragazzi sono ricoverati in infermeria, ma la direttrice pensa che si tratti di disturbi di stomaco”.
È il dialogo tra una signora della borghesia britannica e la sua governante, l’incipit del primo episodio di “Survivors”, “I sopravvissuti”. La serie televisiva di fantascienza (?) fu ideata dallo sceneggiatore gallese Terry Nation (1930-1997) e trasmessa dalla BBC in tre stagioni, tra il 1975 e il 1977. Fu replicata dalla “Televisione della Svizzera Italiana” e, più tardi, dalla RAI. Sul tema, nel 1978 Terry Nation pubblicò pure un romanzo.
“Giornale radio. Notizie che ci pervengono dal governo britannico avvertono che sulle strade si stanno creando ingorghi in tutto il Paese. La polizia consiglia ai viaggiatori di ritardare il più possibile il rientro a casa per evitare un’ulteriore congestione. Ed ecco le notizie dall’estero: New York è ancora senza elettricità a molte ore dal guasto. Si calcola che la metà dei lavoratori sia stata colpita dal virus. Il governatore ha dichiarato lo stato di emergenza. I nostri corrispondenti da Parigi e Roma ci informano che è in aumento tra le autorità mediche la preoccupazione per la rapida diffusione del virus. Si sono registrati parecchi casi mortali in ambedue le città…”.
Quasi mezzo secolo dopo, quelle notizie da film dell’orrore si sono materializzate nelle nostre contrade. Con una pandemia, un’infezione virale che non ha risparmiato alcuna Nazione del pianeta. Le immagini della lunga teoria di 70 camion dell’esercito che, a Bergamo, nella notte di metà marzo 2020 furono impiegati per trasferire le bare dei morti di Covid; il lento e solitario cammino del Papa vestito di bianco nella notte del venerdì santo (10 aprile 2020) in una piazza San Pietro deserta e spazzata dalla pioggia, sono il paradigma dolente di una sciagurata quanto prolungata stagione pandemica.
L’infezione che, da marzo 2020, ci ha segregati in casa a più riprese, a metà aprile 2021 aveva contagiato in Italia 3,75 milioni di persone e causato la morte di 114 mila individui, la maggior parte anziani; in provincia di Trento: 37 mila contagiati e 1.234 morti. Tra di loro anche 350 medici che erano impegnati a contrastare il contagio: in corsia o negli ambulatori sul territorio. La dott.sa Gaetana Trimarchi, 57 anni, medico di “continuità assistenziale” (medico di guardia), in val di Fassa, è mancata il 30 marzo 2020 a causa dell’infezione contratta in ambulatorio. A metà aprile 2020, a New York, dove viveva e aveva operato sino al 2018, se ne è andato il dott. Giancarlo Bertoni, medico anestesista nato a Cavalese.
Il medico di famiglia: “Ho percepito la mia fragilità”
Il dott. Graziano Villotti (1952), medico di famiglia in val di Cembra, ha vissuto in prima persona e sulla propria pelle l’infezione da Covid-19.
Che esperienza è stata?
“Tutto è cominciato ai primi di maggio (2020) con un malessere generale, fino a quando è scoppiata la febbre: 39,5 gradi. Ho trascorso una notte agitata. In poche ore il sospetto di Covid si è trasformato in conferma. Debbo dire che si sta veramente male, con la percezione di avere addosso un macigno e la consapevolezza di non essere in grado di sostenerlo. Le ossa rotte, dolore muscolare diffuso. Fin dal primo giorno sono stato messo in terapia, con tachipirina, eparina e il Plaquenil, quel farmaco per l’artrite reumatoide che ha funzionato in numerosi casi, compreso il mio, contro l’infezione. Poi credo mi abbia aiutato molto un’alimentazione leggera e il bere molto”.
Ha individuato la causa del contagio?
“Avevo il sospetto di un contatto con una persona. Ripensandoci, tuttavia, ho dei dubbi. Comunque si è trattato di un paziente”.
Mentre stava male ha mai pensato che avrebbe potuto fare la fine di numerosi altri suoi colleghi?
“Si che l’ho pensato. Sono stato seguito in modo molto stretto dal mio medico curante. Temevo che mi mandasse in ospedale. E lì l’evoluzione poteva arrivare a un punto di non ritorno. Questa insicurezza mi ha attanagliato nei primi tre giorni, quando ho avvertito in pieno l’aggressione del virus. Dopo mi sono tranquillizzato e mi sono detto: forse ce la faccio”.
Quanto è durata la paura di morire?
“I primi tre giorni”.
Che cosa passa per la mente di un medico quando si trova dall’altra parte della barricata?
“Cominci a percepire la tua fragilità. Si sgretola una sensazione di invulnerabilità. Fino a questa esperienza ho avuto la fortuna di non essere aggredito da malattie o di subire traumi. E a quel punto ti pare di essere più forte degli altri, invece non è vero. Quando sono stato colpito dal virus mi sono chiesto: perché a me? La risposta è molto semplice: perché a me, no? Poi ti rendi conto che stai entrando in quella fascia di età, i settant’anni, con la quale cominciano i distinguo anche per le terapie. Quando cioè, in mancanza di posti letto in rianimazione, qualcuno potrebbe fare la scelta di privilegiare i più giovani”.
In quei giorni è mai stato assalito dal dubbio sulla scelta di fare il medico?
“Mai, nemmeno sul sistema di protezione che ci aveva fornito l’Azienda sanitaria. Le prime settimane abbiamo preso l’infezione sottogamba. Ci dicevamo: ma sì, è ancora in Cina. L’ho vista avvicinarsi quando c’è stato un primo caso di val di Cembra, con una persona anziana colpita e poi quando si è dovuto mettere in quarantena un volontario dell’associazione di pronto intervento “Stella Bianca”. Altri due casi hanno interessato miei assistiti. Dove e da chi ho preso l’infezione francamente non lo so, perché mi sono passate davanti molte persone, anche asintomatiche”.
Passati alcuni mesi, come sta?
“Mi sento in forma ma sento anche che sono cambiato. È aumentata l’attenzione a ciò che mangio, all’attività fisica, a quella professionale. La sera avverto di più la fatica. Ho ridotto molti impegni di lavoro, misuro le forze. Credo di essermi ammalato anche perché il mio sistema immunitario era diventato più fragile proprio per le mille attività che si accavallavano. A livello professionale il Covid-19 ha aiutato, perché dal medico adesso si va solo per le urgenze vere. E questo ha fatto la selezione pure nei nostri ambulatori. In tal modo si possono gestire i pazienti con maggiore tranquillità”.
Resterà in servizio fino a quando?
“Fino al compimento dei 70 anni, perché questo lavoro mi piace. Finché la legge mi consente di praticarlo, non smetto”.
Il decano dei medici: “Avrei voluto tornare in corsia”
Da un medico in attività, al decano dai sanitari trentini, il past president dell’Ordine dei medici (è iscritto da 73 anni), il dott. Gios Bernardi (1923). Il quale, a 98 anni compiuti e ben portati, nei primi mesi dell’emergenza Covid voleva indossare nuovamente il camice e andare in corsia a dare una mano ai colleghi.
“Prima della libertà personale deve prevalere la solidarietà. E essere solidali oggi vuol dire starsene chiusi in casa per evitare che il contagio si propaghi. Benché sbertucciati dalle altre “grandi Nazioni”, per giorni abbandonati a noi stessi e indicati come gli untori di una pandemia che non ha risparmiato alcun popolo, credo che l’Italia abbia dato l’esempio di un servizio sanitario diffuso e solidale che non ha uguali”.
Non lo ha fermato la paura del contagio né il rischio dell’età. “Ho sol pensà che i m’averìa ridèst fòra”, ha confessato con buona dose di ironia.
Costretto alla clausura, come tutti, in quei giorni di marzo 2020 ha ripreso in mano i testi sulle epidemie, a cominciare dal classico Tucidide con la descrizione della peste di Atene del 430 a. C. (“i medici non riuscivano a fronteggiare questo morbo ignoto ma, anzi, morivano più degli altri, in quanto più degli altri si avvicinavano ai malati”). Nonostante il pericolo e l’età, per sua indole lui sarebbe tornato in ospedale. Per dare una mano. Rimpianti? “Ho avuto una vita intensa e interessante. Nessun rimpianto, anche perché per carattere non sono mai stato portato verso il passato. Guardo al presente”. E guardare al presente, per un medico costretto dall’anagrafe all’inattività professionale, è ribadire che “il Coronavirus sarà sconfitto, spero presto, dal comportamento corretto della popolazione e dalla ricerca scientifica. Ma quando tornerà la primavera, la stagione della semina sarà passata da un pezzo. La globalizzazione, che negli ultimi decenni aveva portato a una ubriacatura planetaria, dovrà essere ripensata. Così come noi del nord opulento del pianeta Terra dovremo ripensare al nostro vivere, così sopra le righe, così fuori dal mondo. In fondo, un virus invisibile all’occhio ci ha messi in ginocchio in un baleno. E credevamo di essere invincibili”.
Il giornalista e scrittore giudicariese: “Cento anni e dieci ore al computer”
Chi non è stato vinto né dal virus né dalla bomba atomica è uno straordinario insegnante di Tione. Mario Antolini “Musòn” ha compiuto cento anni il 19 giugno 2020. Per il traguardo del secolo, i suoi figli gli hanno regalato un nuovo computer. Perché all’età di cento anni, Mario Antolini “Musòn” usa ancora il PC dieci ore al giorno. Come un ragazzino, ma meglio dei suoi nipoti. Di storie da scrivere e da raccontare, il “grande vecchio” di Tione ne ha ancora buona scorta. Ovvero, quanto può essere lunga una vita che ha attraversato il secolo delle guerre. Ha vissuto in prima persona lo scoppio della bomba atomica a Nagasaki (9 agosto 1945), è tornato incolume dal Giappone (1947), ha fatto a lungo l’insegnante, ed è il più anziano giornalista del Trentino-Alto Adige. Mario Antolini ha sparso cultura giudicariese a piene mani.
Nato nell’anno in cui finiva la pandemia di febbre “spagnola”, il 1920, Mario Antolini si è trovato a vivere dentro la pandemia di coronavirus che lo ha segregato in casa, come tutti noi, per oltre un anno.
“Da dieci anni, ormai, da quando cioè sono rimasto vedovo, vivo chiuso in mansarda, tutti i santi giorni a scrivere al computer. Del “seràdi su” non ho risentito in alcun modo. Anzi sono aumentate le telefonate, le e-mail e i contatti giornalieri in Facebook/Messenger”.
A proposito di social media, nel chiedere l’amicizia su Facebook, il “Muson” chiude con un perentorio “no perditempo”. Perché a questa età il tempo è prezioso. “Son mi che l’uso, no vói farme usar da Facebook”. Nemmeno a cento anni, quando, di solito, si ha bisogno della “badante” e del bastone. Lui è ancora autonomo: di testa e di gambe.
“Non riesco ancora a rendermi conto della corsa dei giorni. Certo, mi meraviglio che il Padreterno, nonostante due gravi malattie in tarda età, continui a lasciarmi in buona salute e con la mente lucida, tanto che non ho ancora interrotto il quotidiano impegno con la tastiera”.
La “nonna” di Trento: “104 anni e la clausura giocando a carte”
Invece, la signora Margherita Marigo, che ha compiuto 104 anni l’11 agosto 2020, a gennaio del 2021 è stata costretta a sospendere le sue capatine in chiesa. Ogni sabato sera, andava a messa nella parrocchiale di S. Carlo, alla Clarina, il rione di Trento dove vive. Ancora autonoma. “Quando mi muovo – spiegava nel mese di ottobre del 2020 – uso il girello perché ho paura di cadere, ma solo per quel motivo”. Ciò che temeva è accaduto. Una frattura della testa del femore, fenomeno non raro in età avanzata, l’ha costretta a un ricovero in traumatologia. L’intervento chirurgico – racconta la figlia Maria Ada – è riuscito ma, a causa dell’età, la signora Margherita è stata accolta in una residenza protetta, la Casa Famiglia Anziani, a Vigoro Vattaro.
Margherita marigo è rimasta vedova 44 anni fa. I primi mesi di clausura li ha vissuti guardando la televisione: Telepace e il telegiornale. “E poi c’era una vicina di casa (la signora Rosanna) che veniva a farmi compagnia e giocavamo a ‘Scala 40”. Non le è mancato nulla, a parte la figlia Maria Ada (Mada), tre nipoti e altrettanti pronipoti, “perché questo virus ci ha preso tutto. Ci ha isolati dai parenti, da tutti”.
Padovana di nascita, Margherita è cresciuta con la zia che viveva a Milano, perché sua mamma aveva sette figli. “Sono nata a Ospedaletto Euganeo, vicino al Vo dove ci sono stati tutti quei casi di infezione da coronavirus. Mio marito era nato a Vienna, figlio di un ufficiale austriaco. Siamo venuti a Trento nel 1948”.
No, non ha mai fatto il vaccino contro l’influenza. Fino all’età di novant’anni, almeno. Perché un giorno, mentre si trovava da una sua amica è arrivato il medico e lei, candidamente, ha ammesso che non si era mai vaccinata. Il sanitario, chiesta l’età alla signora, l’ha guardata e ha commentato: “Signora, se è passata attraverso due guerre vedrà che sarà in grado di sconfiggere anche l’influenza”. Intanto ha sconfitto la frattura della testa del femore ed ha sconfitto il Covid-19 grazie alla vaccinazione che le è stata praticata dopo l’intervento in ospedale. Margherita Marigo ancora perfettamente lucida attende con ansia il giorno in cui potrà riabbracciare la figlia e gli affezionati nipoti.
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