La notte si confuse con le nuvole basse. Nevicava ormai da due giorni. Tra gli abeti carichi di neve fradicia e pesante, il silenzio fu rotto dal crepitio di una mitraglietta. La guerra era finita da più di un anno ma sulle montagne c’erano ancora armi e munizioni nascoste. E c’era ancora qualcuno, in giro per le valli, che regolava senza tanti salamelecchi vecchi rancori, ruggini antiche.
“Nella tarda serata di ieri, ci è giunta telefonicamente da Levico la notizia di un gravissimo fatto di sangue avvenuto a Vetriolo. Infatti, verso le 19, cinque o sei malviventi armati di mitra, si sono presentati all’ingresso della cucina dell’Albergo Miramonti ed hanno effettuato una sparatoria uccidendone il signor Adolfo Garollo di anni 55, la moglie Antonietta di 50 e ferendo gravemente la figlia 25enne Adelina. Fortunatamente l’altro figlio, Aldo (20 anni), si trovava in quel momento al piano superiore, altrimenti sarebbe rimasto vittima pure lui. […] Naturalmente queste notizie nei loro particolari, potrebbero andar soggette a rettifiche, causa lo stato di orgasmo di chi ce le ha trasmesse. Al momento di andare in macchina [in stampa] ci è poi giunta notizia che i malviventi hanno anche vilmente assassinato tre componenti un’altra famiglia. Certa Giulia Avancini e i suoi due figli: Narciso di anni 26 e Sergio di anni venti sono caduti sotto i colpi dei banditi”.
Così il “Popolo Trentino” del 10 dicembre 1946, giornale diretto da Flaminio Piccoli, a pagina 2, sotto il titolo a tre colonne: “Spaventoso eccidio di due famiglie – un gruppo di malviventi uccide cinque persone a colpi di mitra”.
Teatro della strage: l’albergo “Miramonti” dei Garollo e la pensione “Avvenire” della famiglia Avancini.
Nella notte “squadre di soccorso, formate da carabinieri e da pompieri sono partite alla volta di Vetriolo nonostante le strade siano semi bloccate dalla forte nevicata di ieri. Si calcola che la neve superi il mezzo metro”.
Caricata su una slitta, Adelina Garollo, terrorizzata e muta, era stata portata a valle e da lì avviata all’ospedale “Santa Chiara” a Trento. Colpita da quattro proiettili, era stata “messa sotto trattamento penicillinico”. Aldo Garollo, il “testimone” dell’eccidio aveva raccontato ai carabinieri di aver visto delle ombre allontanarsi subito dopo gli spari. In effetti, nella neve, c’erano le impronte di scarponi che si perdevano nel bosco. Si disse subito che poteva trattarsi di ex soldati della Wermacht, sbandati della guerra, che giravano da mesi nella zona. Nella vicina valle dei Mocheni, di recente, si erano avuti due omicidi. Gli assassini non erano mai stati individuati. Tra l’altro, sul luogo della strage era rimasta una Maschinenpistole, una mitraglietta usata dai tedeschi durante la guerra.
Aldo Gorfer (1921-1996), “inviato” a Vetriolo, il giorno 11 dicembre pubblicò, sempre a pagina 2 del “Popolo Trentino” un reportage dal titolo: “La vendetta sarebbe stato il movente dell’orrenda strage di Vetriolo”. Gorfer, giornalista di primo pelo, avrebbe raccontato anni dopo e con un po’ di onesta vergogna che, elusa la sorveglianza dei carabinieri, recuperata una scala a pioli, con il fotografo Giorgio Rossi si era arrampicato sul retro dell’albergo “Miramonti”. Aveva forzato una finestra, era entrato in camera da letto e aveva rovistato in un cassettone alla ricerca di qualche fotografia delle vittime.
Il colpo di scena si ebbe mercoledì 11 dicembre. L’indomani, “Il Popolo Trentino” pubblicò finalmente la notizia in prima pagina, taglio centrale, titolo a cinque colonne: “È stato Aldo Garollo a massacrare madre, padre e amici”. Il suo “contegno arrogante, indifferente e cinico”, senza alcuna apparente emozione o commozione aveva suscitato qualche perplessità negli investigatori. Quando poi aveva chiesto a un poliziotto se fosse vero che “le pupille di una persona assassinata tenevano in memoria l’immagine dell’assassino”, il cerchio si era chiuso. Cedette dopo mille dinieghi, a conclusione di un interrogatorio durato alcune ore. Raccontò del rancore verso suo padre, che lo considerava un buono a nulla, e nei confronti di uno dei due fratelli Avancini con il quale aveva compiuto furti e rapine. Raccontò che, vista la sorella ferita, aveva fatto il gesto di suicidarsi ma lei lo aveva fermato “gridandogli che doveva vivere e che avrebbe taciuto e perdonato”.
La svolta fu annunciata pure dal giornale “Alto Adige” di Bolzano che cominciò a occuparsi della strage dopo tre giorni: “Feroce e terrificante il delitto di Vetriolo – L’assassino: il figlio Aldo”. L’orrore attraversò lo Stivale. Tutti i giornali ne parlarono. I settimanali popolari, tra questi “la Settimana Incom”, dedicarono al pluriomicida la copertina. Furono usati titoli del tenore: “Aldo Garollo la belva di Vetriolo”. La sua fotografia in catene fu pubblicata a più riprese.
Nei giorni seguenti la notizia scomparve, inghiottita dall’annuncio di un viaggio di Alcide Degasperi (1881-1954), presidente del Consiglio italiano, negli Stati Uniti (gennaio 1947) per chiedere aiuti per l’Italia. Fu cancellata anche dalla morte improvvisa (14 dicembre 1946) dell’onorevole Gigino Battisti (1901-1946), figlio di Cesare, primo sindaco di Trento e deputato alla Costituente.
Il processo per la strage di Vetriolo, in corte di Assise a Trento, fu celebrato due anni dopo. Durò cinque giorni. L’avv. Giuseppe Frizzi senior (1895-1965), patrono di parte civile, fece stampare la sua arringa. Un opuscolo di 12 paginette con il titolo “Ergastolatelo”. Era capacissimo di intendere e di volere, scriveva il legale, altro che infermità mentale. Aldo Garollo fu condannato all’ergastolo il 18 dicembre 1948. Seguirono anni di perizie e controperizie. La sentenza definitiva, a quasi vent’anni dalla strage, fu pronunciata il 29 ottobre 1965 dalla corte di appello di Bologna. Finì nel penitenziario di Porto Azzurro dove, ogni anno, a Natale, dalla valle dei Mocheni gli arrivavano pacchi e denaro. Probabilmente per quei due delitti insoluti per i quali si era lasciato accusare. Si teneva in contatto con il parroco di Levico, Giuseppe Biasiori (1901-1982). Era cambiato, si era ravveduto, raccontava il prete.
Aldo Garollo ottenne la grazia “per buona condotta” dal presidente della Repubblica, Giovanni Leone. Lasciò il carcere il 30 dicembre 1975. Lo incontrammo a Vercelli, nell’abitazione di Carla Cavallo, una sarta con la quale aveva allacciato un’affettuosa corrispondenza negli anni della detenzione e che poi sposò. Gli chiedemmo quale era, se lo aveva, un desiderio inespresso: “Andare a Levico per mettere un fiore sulla tomba dei miei genitori”. Venne in Trentino nel 1978. Carla Cavallo, la moglie, morì di lì a poco. Tornato in Valsugana, si sposò una seconda volta con una signora di Levico.
Aldo Garollo se ne è andato da questo mondo a 72 anni, il 18 febbraio 1998. Ma quella sciagurata vicenda fu menzionata a lungo come monito per i giovani “viziati e senza Dio”. Tanto che, nelle valli, i bambini un po’ discoli erano ammoniti dalle nonne con un “vèi chi, Garòlo d’en Garòlo che no te sei altro”.
La neve di dicembre ammanta anche i ricordi.
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